Artwork by Jean Michel Basquiat, Untitled (A Nation of Fools)

Il genio bruciato di Basquiat

Giuseppe Fantasia

Pittura e poesia nelle strade di New York, questi erano gli anni Ottanta. A Roma una mostra dedicata all’artista afro-americano inquieto e ribelle, star del mercato, che fu travolto dall’eroina

Il genio e la sregolatezza, il successo e gli eccessi, le ossessioni e le follie, la scrittura e la lettura, tanti colori e innumerevoli ombre. Era tutto questo Jean-Michel Basquiat (1960-1988), indimenticabile artista afro-americano, writer e pittore, amico di Andy Warhol e Keith Haring – con cui condivise molte cose, dalle amicizie ai lavori oltre alle tante sostanze stupefacenti che lo fecero andar via troppo presto – fidanzato, per un periodo, anche con Madonna, che proprio in quegli anni aveva da poco pubblicato il suo singolo di debutto, Everybody, e stava lavorando su Lucky Star, la canzone che poi l’avrebbe lanciata nel panorama musicale americano.

 

Protagonista emblematico della scena artistica newyorchese degli anni Ottanta, Basquiat diventò presto uno degli artisti più popolari dei nostri tempi. Amava la strada e lì, soprattutto a Brooklyn, il quartiere della sua infanzia, passava molte ore del giorno e della notte prendendo ispirazione per i suoi primi graffiti, firmati con lo pseudonimo di Samo, una tecnica che ben presto abbandonò per darsi ad altro, diventando, a soli vent’anni, una delle stelle nascenti più celebri e celebrate nel mondo dell’arte. L’insaziabile curiosità, e la capacità di far confluire nel proprio lavoro elementi colti tratti dai libri come dalla strada, generarono in lui un mix che è stato spesso espressione di storie differenti. Le immagini composte e multiformi si offrirono così alla percezione con la simultaneità propria del bombardamento mediatico fino a svelarne la superficialità disarmante, ma altre volte, la medesima simultaneità si rivelò profonda e coinvolgente al pari dell’ascolto di un brano musicale. A quasi trent’anni dalla morte, i suoi lavori e il suo linguaggio continuano ad affascinare il pubblico di tutto il mondo e dopo il successo ottenuto al Mudec di Milano, anche Roma ha deciso di rendergli omaggio con “Jean-Michel Basquiat: New York City” (opere dalla Mugrabi Collection), una grande e suggestiva retrospettiva allestita al Chiostro del Bramante fino al 30 luglio prossimo. Prodotta e organizzata da Dart Chiostro del Bramante e Gruppo Arthemisia e curata da Gianni Mercurio, la mostra si sviluppa nei due piani dello splendido palazzetto a due passi da piazza Navona, dove troverete un centinaio di dipinti – prevalentemente tele di grandi dimensioni provenienti per lo più dalla Mugrabi Collection – ma anche disegni, serigrafie e oggetti, alcuni dei quali creati in collaborazione con Warhol con cui creò un linguaggio artistico originale, capace di coniugare street art e arte africana.

 

Writer e pittore, amico di Andy Warhol e Keith Haring, fidanzato per un periodo con Madonna. A Brooklyn i suoi primi graffiti

“New York gli fornì i tratti distintivi e indelebili della sua arte e fu fondamentale per il suo linguaggio artistico, incisivo e critico nei confronti delle strutture del potere repressivo e del razzismo, una vera e propria denuncia sociale che aprirà una strada alle future generazioni di artisti di colore”, ha spiegato al Foglio il curatore Gianni Mercurio. “Basquiat era, infatti, orgoglioso delle sue origini (il padre era haitiano, la madre portoricana, ndr), affermava e ne difendeva i valori etici e morali e più volte denunciò l’operato di artisti come Gauguin, Matisse e Picasso che – secondo lui – trattarono ed esaltarono tutto ciò che era primitivo solo per sperimentare nuovi linguaggi, ignorandone completamente i valori”, ha aggiunto. Le avanguardie storiche non erano state capaci di cogliere la genuina forza espressiva dell’arte nera. Lui, invece, fece di tutto per affermarla senza mai considerarla un’arte delle origini, ma un’arte del presente, un’arte integrata e comune con altre espressioni della società contemporanea, dalla danza alla musica, dallo sport alla stessa politica. Come pochi, sintetizzò astrattismo e figurativismo neoespressionista, produsse opere dal tratto viscerale, materico e tribale dando il giusto valore alla pittura e alla scrittura – tessuto delle sue opere – come testimoniano anche le tante poesie che raccoglieva in taccuini o semplicemente sui muri delle strade, dei versi, i suoi – come ha scritto Mercurio nel catalogo della mostra pubblicato da Skira – “che risuonano al ritmo del suo battito interiore”.

 

Muse ispiratrici di Basquiat furono la musica – che non abbandonerà mai e sarà sempre presente nei suoi dipinti – e l’arte greca, romana e africana. Le frasi inserite nei suoi quadri avevano la logica degli aforismi e il suo linguaggio, criptico e simbolico, privo di apparente contenuto narrativo e dalle relazioni oscure, “era anticomunicativo ma seducente al tempo stesso”. La scrittura è una presenza costante nei suoi lavori, “ne costituisce il tessuto”, e la parola, usata come segno grafico e come significante (“uso le parole come fossero pennellate”, dichiarò al New York Times Magazine), “la sottopone a manipolazioni o la riduce a semplice prelievo”. “Delle volte, però, il segno e il colore non bastano a descrivere e a comunicare l’energia intrinseca, ed è in quel momento che entrano in gioco l’uso e la scelta di materiali di recupero che rendono l’opera unica e hanno già in sé un vissuto”, ha precisato Mercurio. La regalità, l’eroismo e la strada sono i suoi temi preferiti perché sono il frutto di una rielaborazione interiore ed emotiva molto forte, sono la sua personale interpretazione del mondo.

 

Fece tantissimi soldi, spesso li teneva sparsi in casa, non gli dava alcuna importanza. Lo lanciò la gallerista romana Annina Nosei

Figlio di una generazione nutrita con le immagini televisive dei cartoon, Basquiat non ne acquisì l’aspetto puramente formale quanto piuttosto lo spirito narrativo e a prova di questo ci sono le strisce ispirate ai fumetti della fine degli anni Settanta, il Comic Book, una serie di disegni realizzata nel 1978, quando iniziò a frequentare, tra gli altri, anche Keith Haring, l’altro grande artista maledetto di quel periodo con cui ebbe molte cose in comune, anche lui omaggiato di recente in Italia con una grande mostra al Palazzo Reale di Milano. Con Haring fece anche una prima collettiva (Beyond Worlds, nel 1981 a New York, assieme all’inventore Bubble Style e a Phase II, figura storica dell’aerosol art newyorchese), usando parole come pennellate e un linguaggio a metà tra l’espressionismo astratto, l’arte concettuale e il messaggio figurativo neoespressionista, manifestato spesso con archetipi e figure popolate da un immaginario infantile. “Facevano cose primitive e sbagliate che però funzionavano”, scrisse un critico americano. Il Mudd Club era il loro mondo notturno, luogo di sballo e di eccessi, ma anche di musica all’avanguardia come tutti gli artisti che lo frequentavano in quel periodo e proprio lì, Basquiat, quando non era completamente fatto di sostanze stupefacenti e non era in preda all’alcol, si esibiva con il suo gruppo musicale (i Gray), regalando al pubblico insoliti pezzi di musica industriale/post punk.

 

Fondamentale, nel suo percorso artistico, l’incontro con la gallerista romana Annina Nosei, la cui benedizione – come ci ha ricordato giustamente Mercurio – “fu per lui un passaporto straordinario”. Laureatasi su Duchamp, grande esperta d’arte, amante e frequentatrice degli ambienti sperimentali e d’avanguardia americani, la Nosei fu la prima a portare e a esporre nella sua galleria, tra gli altri, Mimmo Paladino e Francesco Clemente, allora giovanissimi, la prima a credere in lui, a dargli una possibilità, a fargli raggiungere il successo e quindi i soldi, tanti, tantissimi, che lui teneva spesso sparsi in casa, nello studio o in tasca, senza dargli alcuna importanza. In quel periodo (siamo negli anni Ottanta), Basquiat era capace di realizzare anche più di un’opera al giorno e di venderla, come minimo, a diecimila dollari. Alle diverse fidanzate che collezionò in quegli anni, tra cui Madonna, regalava opere, ma poi se le faceva restituire, perché ossessionato che le stesse potessero rivenderle per guadagnarci. L’eroina entrò in maniera preponderante nella sua quotidianità dove il giorno e la notte si confondevano spesso tra loro, e fu in quel momento che iniziarono i problemi.

 

Basquiat ruppe definitivamente con la Nosei e dal 1985, il suo secondo periodo, cominciò a dare maggiore attenzione a figure significative della storia black nordamericana e haitiana, a raggiungere ancora di più la vetta del successo in anni di grande cambiamento e di rivalsa per tutte le persone di colore come lui, dal cinema (si pensi a Spike Lee) alla televisione (è di quegli anni la sit-com I Robinson), dalla musica (i Public Enemy) fino alla politica (Malcom X e le Pantere Nere). Non fu un caso se dedicò King of the Zulus a Louis Armstrong come Horn Players a Charlie Parker. Particolari, poi i suoi lavori su piatti e porcellane (un’altra passione che condivise con l’amico Keith Haring), ma da non perdere, alla mostra romana, è la tela Procession (1986) – dove una fila di persone è in marcia innalzando un teschio – come quella in cui è raffigurato l’ex presidente Ronald Reagan – di cui criticava la politica di riduzione fiscale per ricchi – da lui definito “thin lips” (“labbra sottili”, che è anche il titolo dell’opera), un’espressione tipica americana con cui si indica una persona che rende false promesse. Poco distante, c’è la serie Anatomy del 1982, in cui frammenti ossei e parole paiono galleggiare su un fondo oscuro, seguita da Back to Neck, dove c’è una spina dorsale affiancata da due braccia smembrate, entrambe realizzate tenendo bene a mente quanto visto in un libro, intitolato Grey’s Anatomy, che sua madre gli aveva regalato da piccolo durante la sua degenza in ospedale (a sette anni fu investito da una macchina). Rappresentazioni, le sue, di un uomo fatto a pezzi non solo a causa della sua tendenza autodistruttiva, ma anche dai nascenti meccanismi del mercato dell’arte degli anni Ottanta. Fu il simbolo dell’esistenza dell’uomo di colore e della percezione che aveva della propria vita di artista nero, una personalità fuori dal comune, inquieta e ribelle, priva di ogni genere di freno inibitorio, dove l’istinto, il desiderio del bello, la materialità e la spiritualità si fondevano insieme. Nelle sue opere c’è spesso una corona dorata, il suo simbolo, effigie di un re caduto – il re della luna? – di un martire, sicuramente di un eroe.

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