Una scena di Alien

Noi e la bestia

Edoardo Rialti

Quarant’anni in compagnia di “Alien”. E secoli di piccoli mondi assediati dai mostri e dalle tenebre. Storia di un’ossessione

“La morte è quando i mostri ti prendono” (un ragazzo ne “Le notti di Salem”, di Stephen King)

“Se guardi nel buio a lungo, c’è sempre qualcosa” (W. B. Yeats)

 

“La sala s’ergeva alta / e d’ampio timpano, aspettava vampe di guerra, / fiamme nemiche; non era vicino il tempo / che odio di lame doveva sorgere / fra genero e suocero da ostilità mortale. / Così gli uomini del seguito vivevano felici / nella gioia finché non si mise / a compiere crimini un nemico infernale…” Sono versi del poema anglosassone Beowulf, ma potrebbero essere recitati all’inizio di Alien, dal primo capitolo girato da Ridley Scott nel 1979, con la sua navicella e astronauti assediati dal mostruoso Xenomorfo, fino all’appena uscito Covenant, nuovamente diretto a distanza di quasi quarant’anni dal papà di Thelma e Louise. In effetti, al pari di Star Wars e del Blade Runner sempre a firma Scott, Alien intercetta a sua volta un nodo archetipico, una miscela di elementi e fonti, dal cinema di Bava ai racconti di Lovecraft e Van Vogt (come ammise lo sceneggiatore O’Bannon, “rubai un po’ a tutti”) che però fondamentalmente si rifà a un’immagine basilare, antica quanto il Beowulf, e più ancora. Un’immagine che ci portiamo dietro e dentro da quando abbiamo iniziato a tendere le nostre fiaccole contro il buio tutto intorno. La lotta dell’uomo con il Mostro. L’Orco che emerge dalle tenebre irrompe nel nostro piccolo cerchio di luce, dopo che abbiamo smesso di mangiare, ridere e cantare. La Bestia che inizia a portarci via. Uno ad uno. Per divorarci. Non a caso, mentre cercavano di vendere la sceneggiatura di Alien ai vari Studios, O’Bannon e soci lo descrivevano come una sorta di “Lo Squalo nello spazio”.

 

Dopo che nell'800
il mondo è diventato leopardianamente piccolo, il viaggio nell'ignoto si sposta nelle infinite distanze stellari

L’aveva intuito già Borges, in fondo raccontiamo sempre le stesse storie (la città assediata, gli amanti divisi, il ritorno a casa dell’eroe, il dio che muore e risorge). Questa paura è uno di quei bagagli che portiamo iscritti nei nostri geni, e che a sua volta continuiamo a riproporre e variare. Dall’Odissea ad Alien appunto, perché, come recitava la promozione del film, “nello spazio nessuno può sentirti urlare”. Stephen King, anni dopo propose una possibile variante, “Nello spazio è sempre mezzanotte. L’alba non arriva mai in quell’abisso lovecraftiano tra le stelle”.

 

Dopo che nell’800, grazie alle scoperte scientifiche e ai mezzi di trasporto, il mondo è diventato leopardianamente piccolo (Il giro del mondo in 80 giorni di Verne proclama proprio la positivistica fierezza di poter davvero percorrere il mondo intero in soli 80 giorni), il viaggio nell’ignoto, le sue dinamiche conoscitive, le sue bellezze e orrori in agguato, si spostano nelle infinite distanze stellari. Dalle isole ai pianeti. Dalle navi di Odisseo e Achab alle astro-navi. 2001 Odissea nello spazio, appunto. E gli incontri con i nostri vicini interplanetari vengono perlopiù immaginati come un confronto con chi è tecnologicamente e/o moralmente superiore (Incontri ravvicinati del Terzo Tipo, Ultimatum alla Terra, Avatar, Arrival…), tecnologicamente superiore e persino più malvagio di noi (gli “intelletti vasti e freddi” de La guerra dei mondi), oppure col buon vecchio brutalissimo Mostro, con la sua scaltrezza di predatore e le sue motivazioni alquanto essenziali. E l’urlo col quale cerchiamo di resistergli anche nelle profondità dello spazio si rifà appunto allo stesso terrore, al tempo stesso agorafobico e claustrofobico, del Beowulf o della grotta di Polifemo. Sostituite il palazzo luminoso con la navicella che procede con le sue luci lampeggianti (le sue torce elettriche) e avrete la stessa immagine d’una piccola unità civile, assediata dalle tenebre. I protagonisti stessi si privano progressivamente di tutti gli orpelli tecnologici, riportandoci a un confronto brutale, preistorico. Di sudore, saliva, muscoli e sangue. Non a caso, gli eroi antichi che debellavano i mostri spesso erano forze della natura poco meno selvagge dei loro avversari squamosi e pelosi. Basti pensare a Eracle, il sommo sterminatore di draghi e giganti, così cavernicolo con la sua pelle di leone e la sua clava, quasi un’immagine da manuale scolastico del nostro passato più remoto, dei primi tra noi che avevano smesso di fuggire alle zanne che si chiudevano sulle nostre calcagna, e, non si sa per quale forza o ispirazione, si sono voltati ad affrontarle con un ramo o una selce. Urlando a loro volta. Dalla savana al balbettante borghese impazzito – forse – del racconto di Maupassant: “Lo ucciderò. L’ho veduto! Mi sono seduto, ieri, alla mia tavola; e feci finta di scrivere con molta attenzione. Sapevo che sarebbe venuto a girarmi intorno, vicino vicino, così vicino che avrei potuto toccarlo, forse, afferrarlo. E allora? Allora avrei la forza e la disperazione; avrei le mie mani, le mie ginocchia, il mio petto, la mia fronte, i miei denti per strangolarlo, schiacciarlo. Morderlo, dilaniarlo”.

 

La psicologia contemporanea aggiunge a questo antico orrore la paura
di un male che spunta tanto fuori quanto dentro di noi

Negli stessi anni di Alien, come notò sempre King, nel film Duel del giovanissimo Spielberg, il protagonista, alla caduta del mostruoso tir che lo bracca, si mette a saltare festante e selvaggio come un cacciatore che abbia abbattuto un mammuth. E in Alien, “le due donne dell’equipaggio sono presentate in termini non sessisti fino al momento culminante del film, quando Sigourney Weaver è costretta ad affrontare il terrificante autostoppista galattico insinuatosi nella piccola capsula spaziale di salvataggio. Nello scontro finale, la Weaver indossa solo un paio di slip e una maglietta sottile, donna oggetto da cima a fondo e perfettamente intercambiabile con una qualsiasi delle vittime di Dracula della Hammer degli anni Sessanta. La morale sembra essere: ‘Era una ragazza perbene finché non si è spogliata’”. Solo che non si tratta soltanto di una donna-oggetto, ma di una guerriera, pura e semplice. Tuttavia i miti non restano mai del tutto identici. Costituiscono sempre uno specchio delle società in cui vengono narrati e rinarrati. Ciò che la nostra psicologia contemporanea aggiunge a questo antico orrore è la paura di un male che spunta tanto fuori quanto dentro di noi. In Alien il mostro viene sempre inseminato negli esseri umani, per poi aprirsi un varco a morsi. Sempre nella parole di King, “durante le sequenze raccapriccianti di Alien il pubblico sembrava gemere dal disgusto più che urlare di spavento. Ed era vero; fa già abbastanza schifo vedere una specie di granchio gelatinoso sulla faccia di un uomo, ma quella scena atroce in cui il mostro esce dal torace di uno dell’equipaggio è davvero il massimo del sanguinolento… e accade a tavola. È abbastanza per accantonare i popcorn” (magari per sempre: nella parodia presente in Balle spaziali, la stessa scena avviene in un drugstore, sfottendo evidentemente la malsana alimentazione americana e il suo potenziale omicida). Tutto ciò presuppone l’altra grande dimensione di questo archetipo, il suo aspetto di profondo turbamento sessuale. Come spiegò lo stesso sceneggiatore, “Se c’è una cosa che turba tutti è il sesso, mi sono detto. Ecco come voglio attaccare il pubblico. Voglio farlo sessualmente. E non ho intenzione di puntare alle donne nel pubblico, ma agli uomini. Ho intenzione di inserire ogni immagine che riesco a immaginare, pur di fargli incrociare le gambe. Stupro omosessuale-orale, il parto. Quella cosa ti depone le sue uova nella gola, te le scarica dentro tutte quante”. Alla sessualità si accompagnano naturalmente temi come la maternità (il computer di bordo del primo film si chiamava appunto Mother) e l’aborto (in Prometheus la protagonista si opera da sola, pur di liberarsi del polipo che le cresce in grembo a vista d’occhio). Ci sono stati estremisti religiosi che hanno addirittura impugnato tutto il ciclo come un satanico inno alla contraccezione (su LifeSite è fresco fresco un pezzo che stigmatizza ancor oggi il ruolo guerriero della Weaver nel primo Alien, perché mina e sovverte la vera identità femminile di angelo del focolare, leggere per credere). Che si faccia riferimento al grande parassita che può mangiarci dall’interno, il cancro, è fuor di dubbio. Con una strana convergenza immaginativa, Oriana Fallaci era proprio così che lo chiamava: l’Alieno, col quale ingaggiare una lotta senza quartiere.

 

In Alien tutte queste dimensioni avevano – come ha sottolineato lo scrittore di fantascienza R. K. Morgan – il grande pregio artistico di essere affrontate in modo sottile e indiretto. Si racccontava una vicenda assolutamente particolare, ben delimitata, quasi un semplice episodio, che tuttavia riusciva a far intuire un contesto e delle implicazioni molto più vaste. Senza la pretesa di spiegare tutto. È però un’altra nostra tendenza costante (l’ellenismo docet) quella di voler a tutti i costi colmare le lacune, riempire gli spazi vuoti. È l’enciclopedismo compulsivo di tanta cultura nerd, la sua brama di collegare tutto. Ma l’eccesso di dottrina uccide il potere di qualsiasi mito e ciò che era epica e pathos si riduce alla sua interpretazione più adolescenziale e consumistica, il mero massiccio, l’imponente, il colossale. Come ammonisce già la Bibbia, quando abbellisci troppo il tempio, scopri che il Dio nel frattempo se n’è volato altrove. È il rischio in cui è scivolato anche il Prometheus di Scott, con la sua urgenza di gettare in primo piano questioni cosmiche e persino metafisiche che però non si accompagnano ad alcuno svolgimento drammatico convincente, e al mero riproporsi di stilemi che si fanno stereotipi (e speriamo che qualunque Musa sovrintenda a queste materie impedisca che lo stesso errore si ripeta con Blade Runner 2, guastando un capolavoro della fantascienza noir, a sua volta pienamente riuscito).

 

“Se c’è una cosa
che turba tutti
è il sesso. Ecco come voglio attaccare
il pubblico. Voglio farlo sessualmente”
(lo sceneggiatore
di “Alien”)

Al tempo stesso, la navicella luminosa continua ad avanzare delle tenebre, con le sue minacce esteriori e interiori. Il primo Alien forse doveva non poco ad alcune intuizioni della fantascienza horror italiana di Bava (sebbene regista e sceneggiatore abbiano negato tale influenza), e proprio mentre nelle sale viene proiettato Alien Covenant (“sequel del prequel” Prometheus), un’interessante variazione sul tema ci viene offerta proprio in salsa italiana da un vero padre-pionere della narrativa d’azione (che non crede in Dio, quindi l’Evoluzione ce lo conservi a lungo) come Alan D. Altieri. Dopo averci regalato splendidi thriller metropolitani come Città di ombre, lo snaper Kane e i corvi e gli archibugi della sua rinarrazione (stavolta davvero) epica della Guerra dei trent’anni, il suo Magellan (secondo volume del nuovo ambizioso ciclo sci-fi Terminal War) è ambientato proprio in una nave spaziale (Altieri sfrutta le sue competenze d’ingegnere per speculare su qualcosa che non è affatto una graziosa Costa Crociere intergalattica) che si addentra nell’oscurità d’un varco che permette di spingersi dove nessuno poteva nemmeno immaginare nei suoi sogni o nei suoi incubi più selvaggi. Il suo interno (coordinato da un’Intelligenza Artificiale alquanto bizzarra) ospita un gruppetto di tecnici, e un eroe che è l’ultima arma delle vecchie guerre terrestri. L’ultimo Guerriero, appunto. E anche questo Beowulf logoro sta per scoprire cosa ci aspetta alla fonte di un remoto segnale, che proviene dalla poco rassicurante Cauda Serpis, la costellazione del Serpente. Gli basterà dare un’occhiata per suggerire “Andiamocene” , ma non gli daranno retta. Non l’abbiamo mai fatto, del resto. Come racconta già il pentito Odisseo, rievocando l’ingresso nella grotta del Ciclope, “Qui forte / i compagni pregavanmi che, tolto / pria di quel cacio, si tornasse addietro, / capretti s’adducessero ed agnelli / alla nave di fretta, e in mar s’entrasse. / Ma io non volli, benché il meglio fosse: / quando io bramava pur vederlo in faccia”. Anche in questo caso, il nostro sangue e i nostri geni sanno già quali saranno le poco allegre conseguenze, e una rivelazione agghiacciante. Nel finale alternativo che Scott aveva pensato per il primo Alien, il mostro sopravviveva allo scontro e imitava la voce della protagonista per passare un punto-identificazione. Un’altra immagine che ci tocca nel vivo, e strappa una risatina inquieta. Perché, da Cappuccetto Rosso a Magellan, sappiamo bene che da parecchi millenni non ci limitiamo ad aspettare che i mostri vengano a spiarci dalle finestre. Abbiamo la tendenza poco saggia a invitarli in casa, con la nostra irrefrenabile curiosità.

Di più su questi argomenti: