Là dove c’era “Studio Uno”, con i beati anni del monopolio, oggi il sabato sera sul canale principale della Rai c’è “Ballando con le stelle” (foto LaPresse)

Il fu servizio pubblico

Andrea Minuz

Un’idea incrostata di mitologie e illusioni. L’eterna crisi d’identità della Rai, persa tra la missione pedagogica, l’informazione di qualità, le tette e i culi e le impietose ragioni delle tv private

Gli intellettuali italiani non guardano la televisione ma se parliamo della crisi del servizio pubblico hanno già la soluzione: “Ci vuole il modello Bbc”. Pluralismo, autonomia, qualità, cultura. E che servizi! Che documentari! Documentari sempre bellissimi e imprescindibili quando se ne parla nelle cene tra amici, augurandosi che nessuno ci chieda come finiva quello sulla “decorticazione del grano in Galles” che purtroppo non siamo riusciti a vedere tutto. Invece la Rai, signora mia, è tutta in mano ai partiti. L’ha spiegato anche Fabio Fazio su Repubblica. L’ha ribadito Michele Serra dalle pagine dello stesso giornale parlando di una “micidiale e perdurante morsa padronale che i partiti esercitano sul servizio pubblico televisivo, con continue e pesanti intromissioni su nomine, palinsesti, assunzioni”. Un discorso che non ha mai riguardato la “factory” Botteghe Oscure–Unità–RaiTre perché, si sa, inseguivano più nobili e grandi disegni. Nell’attesa che la Rai passi dalle ingerenze della politica a quelle dell’antipolitica un fatto è certo: non ci si può più lavorare. Non con il tetto-stipendi, non con i partiti di mezzo, non con Paola Perego. Così, a ridosso della scadenza delle concessioni e dopo ogni scandalo, polemica, flop, epurazione, rinnovo di contratti o cancellazione di programma bisogna tornare all’annosa domanda. Ma che cos’è il servizio pubblico? Che cosa deve o dovrebbe fare? Privatizzare? Sì, ma come? Anzitutto, qualche consiglio pratico.

 

Consigli pratici: prendere tempo spiegando che il servizio pubblico siamo noi, rimpiangere la Rai degli anni Settanta, evocare la Bbc

Prendere tempo spiegando che il servizio pubblico siamo noi, nessuno si senta escluso. Affidarsi alle stesse giaculatorie che irradia la parola “sinistra”. Per cui c’è bisogno del “vero” servizio pubblico, dobbiamo tornare alle “radici” del servizio pubblico, ritrovare il “senso smarrito” del servizio pubblico, “riannodare” il rapporto tra telespettatori e servizio pubblico. Poi, evocare la Bbc, rimpiangere la Rai degli anni Settanta, agitare lo spettro dell’“innovazione”, della “ricerca”, della “sperimentazione”. Ripensare infine una missione pedagogica col “digital divide” che la Rai (impero della burocrazia e delle piramidi di fotocopie) potrebbe colmare. Come ha detto Monica Maggioni, il servizio pubblico deve fare qualcosa per quella “parte di italiani che non sa neppure cosa siano i social network”. Dopo Diego Bianchi che legge i tweet sulla lavagna di “Gazebo”, troveremo un maestro Manzi per spiegare agli anziani come funziona Snapchat. Poi però ogni tanto usciamo dal palinsesto quotidiano, ci guardiamo sconsolati negli occhi e ci diciamo: Ma perché ci vuole il canone in bolletta per “Festa italiana”? Come mai “Viva Mogol” lo paghiamo noi e “Music” di Bonolis invece no? Come facciamo a spiegare ai millennial che “Uno mattina” è servizio pubblico e “Mattino Cinque” no? Che “A tavola alle sette” è parte dell’identità del paese e “Il pranzo è servito” no? Che “La prova del cuoco” è un bene comune mentre “Masterchef” un prodotto commerciale piegato alla logica del mercato? I “faccia a faccia” su La7 di Giovanni Minoli sembrano servizio pubblico, con quegli affondi serrati che inchiodano gli ospiti, i botta e risposta, i servizi e le ricostruzioni storiche. Invece no. “Edicola Fiore” piace a tutti, dall’intellettuale (che non lo guarda) alla colf filippina. Il programma di Fiorello è un formidabile elogio della carta stampata nell’epoca dell’iPad, divertente, leggero, con un buon ritmo. Va in onda alla stessa ora in cui nelle altre rassegne sfilano le prime pagine dei quotidiani letti sui “device”. Dunque, un programma con una funzione pedagogico-cultural-educativa non da poco in un’epoca in cui quelli sotto i 25 anni un giornale di carta non l’hanno mai visto. Potrebbe essere servizio pubblico? Le arringhe sui vitalizi di Massimo Giletti starebbero benissimo dentro “La Gabbia” o a “Piazza pulita” invece sono l’antipasto di “Domenica In”, cioè servizio pubblico. Le litigate in studio tra Adriana Volpe e Giancarlo Magalli sono servizio pubblico perché finiscono con una bella stretta di mano e l’aplomb ma anche perché, come ricorda la conduttrice, le insinuazioni di Magalli “offendono me, mio marito, la mia famiglia e la Rai”, dunque tutti noi. Invece, gli schiaffoni che volano a “Domenica Live” sono puro degrado morale e tv commerciale. Come domenica scorsa, quando nel salotto di Barbara D’Urso scatta la rissa tra Filippo Facci e l’avvocato di Cicciolina, una litigata furibonda con tanto di accusa di vitalizio che fa anche il verso all’“Arena” (ebbene sì, c’è anche il vitalizio del figlio di Ilona Staller, Ludwig Koons). Ecco, le risse televisive potrebbero essere un prisma di lettura ideale per rimettere in gioco un confine, una qualche distinzione di senso tra la Rai e le tv private. Ma forse non basta.

 

Anni fa, Giancarlo Magalli fissò in un’immagine indelebile l’annoso conflitto tra la missione del servizio pubblico e le impietose ragioni delle tv private, almeno per come si danno battaglia da noi: “A Mediaset ti dicono, dobbiamo fare otto milioni? Facile: tette e culi. In Rai ti dicono siamo il servizio pubblico. Poi alla seconda puntata dicono, bello eh, però dovremmo fare mezzo milione in più, non è che si può mettere una tetta o un culo?”. Che fare? La crisi di identità del servizio pubblico, perso tra gli echi della missione pedagogica, la dolenza della cultura libresca, l’informazione di qualità, le tette e i culi, parte da lontano, s’impenna con l’arrivo della tv commerciale e s’incendia nel corso degli anni Novanta. “Sono rimasto allibito ieri sera, durante la trasmissione ‘Notte magica’ condotta da Pippo Baudo”, scriveva uno spettatore in una lettera al Corriere nell’aprile del ’92, “ho visto lunghe immagini di seni femminili, nudi e dipinti; uno scherzo che mi sarei aspettato da Canale 5, ma da RaiUno no”. Lo spettatore non capiva che si trattava di tette indispensabili, messe lì per combattere una dura, rovinosa e logorante battaglia di trincea. “Il servizio pubblico”, diceva in quegli anni il direttore generale, Gianni Pasquarelli, “è l’unico argine contro l’omologazione americaneggiante, contro l’oligopolio e l’alluvione pubblicitaria, una Rai pubblica è cruciale per il futuro della democrazia”. E se c’è in ballo il futuro della democrazia, suvvia, che sarà mai un culo?

 

Quando agli sceneggiati Rai il pubblico inizia a preferire i vecchi film trasmessi sulle reti private, pieni di pubblicità, parte lo psicodramma

Capitava spesso, all’alba degli anni Novanta, poco prima della sua discesa in campo, che Silvio Berlusconi attaccasse la Rai perché aveva abdicato alla sua funzione di servizio pubblico. Perché “per foga competitiva” era diventata una televisione commerciale come le sue. Il Cavaliere impreziosiva gli affondi con colpi di puro genio: “Fosse per me trasmetterei anche i film di Bergman, ma perderemmo ascolti contro gli show della Rai”. Con un autentico, cristallino détournement situazionista, Berlusconi rimandava al mittente le accuse di imbarbarimento televisivo per riposizionarsi nel solco della mitologia della Rai degli anni Settanta, quella degli sceneggiati e dei film di Bergman in prima serata. Volendo la cultura ve la darei io e gratis, ma la Rai mi gioca al ribasso e devo rifilarvi il Bagaglino. Chapeau.

 

Berlusconi confermava l’intramontabile schema di gioco che da noi tiene in ostaggio cinema, media, televisione, romanzi, tutto. Nessuno esce vivo dall’opposizione fra “intrattenimento” e “cultura”. Non in un paese che la parola “cultura” l’ha messa nello scaffale più insidioso, oscuro e minaccioso della libreria, mentre l’intrattenimento lo guarda con sospetto perché involgarisce, perché discrimina, diseduca ed è pur sempre l’avamposto dell’alienazione, come c’hanno spiegato Adorno, Pasolini, la scuola e l’università. Inevitabilmente, si finisce sulla mitologia della Rai degli anni Settanta. Ci si ritrova nei beati anni del monopolio, con lo studio di fonologia, i testi di Umberto Eco da Joyce, i corridoi dove incontravi Pierre Boulez, Bruno Maderna, John Cage. La Rai delle sperimentazioni altissime e degli sceneggiati popolari che, come dice Veltroni, “hanno favorito la modernizzazione e la secolarizzazione della società italiana”. Innescato e celebrato dalla televisione di Fabio Fazio lungo l’asse che va da “Anima mia” al remake del “Rischiatutto”, l’effetto nostalgia sconfina in una mostra dedicata alla Rai degli anni Settanta che aprirà a maggio alla Fondazione Prada di Milano, con allestimento di Francesco Vezzoli. “La televisione migliore del mondo”, come dice il lancio, metterà in scena “Canzonissima”, le scenografie optical, i film prodotti dalla Rai di quegli anni, come “Padre padrone” dei Taviani, e maratone di sceneggiati allestite nella sala cinema della Fondazione. Un’overdose di cultura del monopolio, bianco e nero vintage, sceneggiati d’accademia, film brechtiani, planando sulle vette sperimentali e i sentimenti popolari del servizio pubblico, come dentro un sogno infranto sul più bello dall’arrivo delle tv private. Già, come non rimpiangere la Rai degli anni Settanta? Chi non ha nostalgia di palinsesti come questo: ore 11, “Santa Messa”; ore 12, “Domenica ore 12”; ore 12.30, “Colazione allo studio 7”; ore 13.30, “Telegiornale”; ore 14, “A come Agricoltura”; ore 15.00, “Ripresa diretta di un avvenimento agonistico” (chissà quale); ore 16.45, “La Tv dei ragazzi”; ore 18.00, “Oggi Music-Hall”; ore 19, “Telegiornale”; ore 19.10, “Cronaca registrata di un tempo di una partita di calcio” (un tempo solo, una cosa di una perfidia assoluta); ore 19.55, “Telegiornale”, e infine, alle 21, “I Demoni” di Fëdor Dostoevskij, quarta puntata, con una sigla che faceva venire gli incubi a tutti i bambini. Idolatrata da tutti, la Rai degli anni Settanta era forse la migliore del mondo ma anche la più involuta (costretta al bianco e nero fino al 1977, mentre quasi ovunque era arrivato il colore) ma all’epoca se ne accorgevano in pochi. Alla fine del decennio, Francesco Alberoni scriveva che “l’industria cinematografica italiana e la Rai non sono riuscite a produrre ciò che era necessario per reggere la concorrenza internazionale di fronte ai mercati che si aprivano, ripiegando anzi sul folklore e il provincialismo di operazioni come ‘Padre padrone’ e ‘L’albero degli zoccoli’”. Apriti cielo.

 

All'alba degli anni Novanta, Berlusconi attaccava la tv di stato perché "per foga competitiva" era diventata commerciale come le sue

Quando agli sceneggiati Rai il pubblico inizia a preferire i vecchi film trasmessi sulle reti private, pieni di inserti pubblicitari, parte lo psicodramma, l’emergenza democratica. “Il servizio pubblico è oggi su una china pericolosa”, scriveva il critico Giovanni Grazzini nel 1984, “per competere con le tv private rischia di scivolare nel baratro dei telefilm più banali e delle più infami telenovelas, rischia di involgarire il gusto della massa già disposta a bere di tutto”. Ai tempi dell’acquisto di “Dallas”, trasmesso su Canale 5 a partire dal 1981, rispondendo alle accuse di involgarimento e di “americanizzazione” della cultura italiana, Berlusconi diceva che prima di comprarlo avevano cercato anche in altri mercati europei, tra telefilm e serial, ma “avevano tutti un ritmo narrativo lentissimo, non funzionale alle nostre esigenze pubblicitarie e commerciali”. Con buona pace dei nipotini di Adorno e dei fautori dei poteri forti che plagiano i nostri gusti dall’alto, gli spot non erano solo asservimento al mercato ma stimolo verso nuove strade del racconto e del ritmo televisivo. Ma il ricordo di Berlusconi tocca a suo modo un nodo essenziale del servizio pubblico. Ossia, lo stretto legame che intrattiene con l’identità culturale europea. Il tema è al centro di due ricerche fondamentali, quella di Jérôme Bourdon (docente all’Università di Tel Aviv) che ha pubblicato “Il servizio pubblico. Storia culturale delle televisioni in Europa” e una più recente di Massimo Scaglioni, dell’Università Cattolica di Milano, autore di “Il servizio pubblico: Morte o rinascita della Rai?”. Entrambi concordano almeno su un fatto. Che per quanto ammantata di nobilissimi slanci, la nozione di “servizio pubblico” è ormai incrostata di mitologie, fraintendimenti e illusioni di cui dovremmo sbarazzarci se vogliamo ancora continuare a difenderla, ripensarla, rilanciarla. Non ultima, la mitologia della “tv di qualità”, che può fare alla televisione gli stessi danni che al cinema ha fatto il riconoscimento di “interesse culturale”. “Basta con la misurazione degli ascolti”, dice Veltroni, ci vuole “l’indice di qualità” altrimenti “si perderà la bellezza”. Veltroni conosce la risposta a tutti i nostri dubbi: “Paghiamo il canone per avere qualità”. Ma cos’è la qualità? Le sue “Dieci cose” su RaiUno? Forse sì. Specie se la qualità deve essere inversamente proporzionale agli ascolti, perché si sa che il pubblico ha bisogno di tempo per capire e magari due ore e cinquantaquattro minuti a puntata non bastavano. “Non è vero che è stato un flop”, risponde Walter a chi sbandiera lo share risicato dello show. “E’ stato un esperimento interessante e anche all’estero è piaciuto”. Magari l’ha già comprato la Bbc.

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