Il critico maledetto

Giuseppe Marcenaro

Bruno Barilli, dalla musica al giornalismo. La genialità espressiva di un grande irregolare sul confine tra illusione e disperazione

“Forse esagero, e lo faccio volentieri”

Bruno Barilli

 


Autunno del 1972. E chi se la ricorda più la sede dell’Adelphi in via San Pietro all’Orto, con la stanza di Luciano Foà affacciata su un terrazzo dove un acero rosso cresceva in un vaso. La stanza dove uno scontroso e intimidito giovane aspirante scrittore ascoltò una filippica di Alfredo Giuliani che aveva appena consegnato a Foà il dattiloscritto del suo Il giovane Max. Sarebbe uscito l’anno dopo. L’aspirante imberbe scrittore aveva bussato con circospezione. Foà, gioviale, l’aveva invitato a entare. Giuliani stava parlando del dopoguerra. Girando per Roma, diceva, si poteva ancora incontrare un vecchio giornalista-scrittore, sparuto, vestito di nero, la faccia nasuta e scalcagnata, gli occhietti scintillanti, grigi capelli scaruffati sulla fronte. “ Uno spaventapasseri in movimento”. Sul tipo che Giuliani evocava, per averlo visto senza osare avvicinarlo, correvano leggende e aneddoti che gli avevano conferito i tratti e l’aura del maledettissimo. Inoltre si diceva che nessuno fosse come lui abile a riciclare un articolo, ripubblicandolo a distanza d’anni, tale e quale con minime variazioni. Che era capacissimo di far la critica di uno spettacolo musicale senza muoversi dalla stanza dell’albergo. Giuliani entrava ancor più dentro al personaggio che raccontava. Lui e Foà sapevano. L’aspirante scrittore ammesso a quel privato teatrino non aveva ancora capito chi fosse il tipo “ombroso, lugubre, spiritato” che incuteva rispetto perché, oltre che critico arcigno, era un artigiano maniaco e sofisticato della pagina scritta. In quegli anni di “impegno”, dopo neorealismo, progressismo letterario e “gruppo 63”, di cui Giuliani aveva fatto parte, un “letterato” come quello evocato, a lui non poteva proprio piacere. Ne parlava con ironia. Era facile dire che si trattava di “uno stilista d’altri tempi… un sopravvissuto alla ‘prosa d’arte’”. Anche se gli veniva “consentita”, quale attenuante, la predilezione per il grottesco, l’eccentricità, le metafore verticistiche, l’esagitato virtuosismo.

 

Poi, fortunatamente saltò fuori il nome del “fantasma”: Bruno Barilli. E la mente dell’attonito ascoltatore, poté un poco snebbiarsi. Non del tutto. Giuliani parlava d’un personaggio morto giusto vent’anni prima, nel 1952, e che progressivamente si era inabissato. Salvo qualche rara indagine accademica compiuta sulla sua produzione letteraria.

 

Bruno Barilli era nato a Fano nel 1880. Giovane infervorato per la musica, si era trasferito a Parma, tuffandosi nelle note studiando composizione al Conservatorio Arrigo Boito. E di quel mondo dove la musica si coniugava con il culatello se ne sarebbe ricordato in un suo futuro libro, Il paese del melodramma: “ In quella zanzariera che è la valle del Po, tra Parma e Mantova doveva nascere il genio di Giuseppe Verdi… Era l’epoca delle sedizioni fulminee, dei grossi adulterii, dei preti e dei mangiapreti, l’epoca del gaz, dei ladri di gatti, e dei lampionari che vanno con l’asta nell’Ave Maria fuligginosa e accendono dei lampioni rotti… la plebe porta il tabarro alla spagnuola e sputa fuori dai denti con tracotanza parlando a grumi quel dialetto mescolato a gagliardo che ancora dura… Popolo turbolento e temibile, popolo che disprezza il villano, odia lo sbirro e massacra la spia dove la trova, quello di Parma. Tutta la città è un teatro continuo: contumelie, gazzarre e tumulti finivano la giornata di quei cittadini pericolosi e fierissimi… Le cagnare, nella luce verde dell’inverno, si trasformavano in sommosse… Con il teatro Regio, turbolento pollaio anarchico…”.

 

L’andare per gli universi musicali, affinandosi, lo portò a studiare direzione d’orchestra a Monaco sotto le cure del celebre Felix Möttl, accanto al poco amato condiscepolo Furtwängler. Dalla Baviera riportò l’ispirazione per due opere: Aretusa, andata in scena una sola volta nel 1910, con nessun successo; ed Emiral, mai rappresentata. Oltre la musica e un istintivo gusto espressionista e caricaturale (la vocazione all’aforisma) incrementato nel lungo soggiorno a Monaco, lui, un dandy della miseria, controfigura di un caratterista da operetta, tornò in Italia con una moglie, la principessa serba Danitza Pavlovic, nipote di re Pietro Karagjorgjevic, sposata nel 1917.

 

Il miraggio della composizione musicale non lo abbandonò mai. La sua vita fu una parade di perpetue invenzioni, cadute di tensione, improvvisi revirements. Tutta una irregolarità bohème sempre sul confine tra illusione e disperazione. Perseguendo la “genialità espressiva” e la “strada per l’immortalità”. Non arridendogli il successo delle note si buttò nel giornalismo: scriveva di musica e di viaggi, facendo poi decantare gli articoli nei libri. Aveva trovato il suo mestiere. Il suo modo di essere.

 

“Si tratta di insistere, di rompere le scatole, di pestare, di scalpitare, di nitrire, di ragliare, di gemere, di urlare, di sgomitare, di ruggire, di buttarsi in ginocchio, di rifar delle scale dalle quali si è buttati, di scrivere a quattro mani, come un scimmione, su quattro registri musicali, di scrivere, di telegrafare, di supplicare, di felicitarsi, d’augurare, la ragione sociale prevale su tutto oggi… Infilarsi adagio, adagio, pigliar poi via, serpeggiando, con un tramestio obliquo, cieco e dilungato, come rettile mostruoso che s’inselva”. E dove poteva dare il meglio se non a Roma dove si trasferì? “Tra le pietre calde e gli oscuri massi di architetture crollate, sfavillavano a miriadi, aerei come fuochi fatui, gli occhi dei gatti selvatici, abitatori di quel Foro ardente”. E giù a perdifiato a scrivere per i giornali: Tribuna, Corriere della Sera, Resto del Carlino… Recensiva invariabilmente un concerto di Paderewski, le biciclette di Copenaghen, i negri di Zanzibar, le nebbie di Londra… Il suo stile un mélange tra la scalea di piazza di Spagna e il color radica indiano affacciato sulle rive della Senna: il barocco rivisitato da un impressionista.

 

A Roma, l’uomo che aveva un’alta considerazione di sé s’adattò a fare la comparsa nei film muti, diretti dall’amico regista Arnaldo Frateili. A un tempo il “critico Barilli” diventava l’incubo dei mediocri. Arruffoni e filistei lo temevano. Le sue stroncatore si leggevano come festosi biglietti di auguri. La sua bestia nera era “l’uomo senza cervello”, colui che “si sforza di esistere ma non se la cava” e al quale non si può fare a meno di telefonare: “Mi hanno assicurato che esistete davvero. Ma non sarà una diceria?”.

 

Che Barilli fosse bizzarro è mancare di precisione. Era ben altro. I quarant’anni del suo soggiorno romano furono una storia di alberghi, pensioni e camere ammobiliate. Sostò in case che “sapevano di carta bollata, di esattoria, di verdure cotte, di commendatori abusivi, di colonnelli a riposo e di fornelli a spirito”, quando non finì in pensioni che erano “un luogo di pubblico transito”. La vera casa di Barilli erano però i caffè, i piccoli cinematografi, dove sulla ragazzaglia della platea la sua testa disordinata affiorava come un’isola coperta di intricata vegetazione tropicale.

 

Al caffè scriveva, riempiendo piccoli eterni taccuini. Ne compilò una nuvola. Una volta si avvicinò al suo tavolino un giovane ammiratore. “Disturbo?” gli domandò timido. Barilli lo guardò un attimo, poi, con un sorriso indulgente, rispose: “Non c’è mai riuscito nessuno”.

 

Il romano centro geodetico di Barilli stava al Caffé Aragno dove irrompeva con la sua faccia saltata fuori da un dipinto di Magnasco, il volto scavato e angoloso fatto di corteccia. S’affacciava alla grande specchiera vi si fissava e poi si ritraeva.. Appariva sul palcoscenico della seconda saletta chiamata anche la sala dei deputati. Incontrava amici e detrattori. E fu in quel giro di letterati che partecipò alla fondazione della Ronda di cui fu redattore assieme a Cardarelli, Cecchi, Baldini, Spadini, Montano, Bacchelli, Saffi. “Sarebbe stato difficile – riconoscerà più tardi Emilio Cecchi – trovare e mettere insieme tendenze più indipendenti”. Ed eccentrici come Barilli. Un tipo come lo vede Leonetta Cecchi Pieraccini nelle sue Agendine, fotografia di gruppo di un tempo e della sua casa. Riceveva la domenica pomeriggio. “Barilli è quasi sempre presente: ma stanco, svogliato, distratto, si rintanava in qualche cantuccio con la tazza del tè nel quale finisce quasi sempre per far cadere i peluzzi di barba ch’egli si ostina a tagliare con un paio di forbicine tascabili”. Gabriele D’Annunzio gli fece omaggio di una copia del Notturno, con una dedica autografa: “A Bruno Barilli, sposo della Povertà e della Musica che lo inalzarono gloriosamente sopra la Fortuna e sopra l’Ingiustizia”. E’ quella una Roma di fermenti artistici, del Teatro degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia, dove ogni rappresentazione è un avvenimento. Ed è la Roma di un personaggio come Telesio Interlandi, direttore del fascistissimo Tevere, dove Barilli divenne redattore. Partì allora per Parigi infervorato di scrittura. Voleva accendere la Ville Lumiére con la sua prosa. Nei boulevards, i passanti si voltavano a guardarlo scambiandolo per Alfonso XIII, il re di Spagna in esilio: la stessa statura, la stessa magrezza, la stessa eleganza, lo stesso viso lungo, lo stesso naso nobilmente pronunciato. Mentre lui, viaggiatore trasognato, si metteva in strada a farsi sedurre dalle più vagolabili metafore: “Et j’ai l’ai du voyageur – mais je suis immobile, toujours immobile – ce sont les nuages qui voyagent”. Sempre pronto ad accogliere nel suo taccuino impossibili folgoranti diorami: “Non c’è più luce abbastanza per riconoscersi nello specchio”. “A Parigi non si tratta di correre, basta stare seduti al caffè, respirare l’aria, guardare la gente”. Ma Parigi per Barilli voleva dire amare giornate. Sulla carta intestata “La Cupole, restaurant, brasserie…” scriveva a Domenico Bartoli: “Essendomi impossibile di ottenere una risposta qualsiasi da Interlandi o da qualcuno che rappresenti il giornale Il Tevere vorrei pregarti di andate tu a vedere cosa succede a mio riguardo… Per la seconda volta e spero senza rendersi conto a quel che mi può succedere, Interlandi contrariamente ai nostri accordi, mi pianta in asso finanziariamente e non mi dà più notizie… sto aspettando lo stipendo di luglio la cui anticipazione mi è stata promessa sin dal giorno della mia partenza…”. E poi, qualche giorno dopo: “Se puoi vedere Interlandi digli che sono alla disperazione…”. E poi, ancora: “Da quaranta giorni sono in uno stato di vergognosa disperazione…”. Senza una lira. E pensare che Barilli costituiva un numero d’obbligo come critico nelle stagioni musicali. “Ogni direttore di giornale – scriveva Cecchi – si ritiene fortunato di accapararlo perché è sicuro di poter offrire alle migliaia di fanatici delle grandi ‘prime’, la mattina dopo, una prima d’altro genere, sul foglio. E spesso accadeva che la vera prima era l’articolo di Barilli”. Anche se i suoi ipnotici giudizi sembravano prodotti da una trance medianica: “Cantanti – che a forza di raccomandazioni alla critica sono rimasti senza voce la sera del debutto”; “Ha il talento di avere la fortuna, ma non la fortuna di avere talento”; “All’apogeo, questo artista sommo traduceva vivamente Paganini sul contrabasso”; “Lo Stato che piglia gusto ad allevare simili bestie ha aperto all’uopo molti istituti che si chiamano Conservatorii di musica”; “Danza: contorsioni michelangiolesche. Ballerine con un paio di gambe capaci di rompere le costole a un puledro”.

 

“Nel 1943 decisi di liberarmi del giornalismo e delle critica per dedicarmi alla composizione di una terza opera. Comprai un pianoforte nuovo, molta carta da partitura – affittai una stanza a Siena. La mia stanza si trovò incastrata fra i due eserciti, gli alleati e i tedeschi, in più le cascarono addosso i partigiani e i repubblichini. In conclusione scomparvero il pianoforte, la carta da partitura, e anche la stanza con tutte le mie robe. Così scomparve ancora prima di nascere la mia terza opera”.

 

Negli anni gli articoli su giornali e riviste fornirono ampio materiale per libri “eterogenei” tra cui Delirama, 1924; Il sorcio nel violino, 1926; Il sole in trappola, 1941; Il viaggiatore volante, 1946; e l’ultimo, pubblicato l’anno prima della morte, quando le ombre della sua mente erano “come un vetro smerigliato”, Capricci del vegliardo, 1951: “La mia occupazione sarà quella di morire adagio adagio senza farmi male… Io sono stato come una palla d’avorio sul tappeto di un biliardo. Ho corso per tutta la vita, avanti, indietro, di qua, di là, scontrandomi con tutti… per finire in una buca”.

 

Poi, dalla miriade dei suoi taccuini furono tratti nuovi volumi, assemblati ad articoli, tra cui Lo stivale. Viaggio dalla riviera adriatica alle città liguri, da Venezia alla costa amalfitana, dalla Sicilia a Milano. Fantasmi retroattivi che hanno consentito a Giuseppe Sottile, in un suo intenso articolo sull’anima di Palermo, di assimilarsi alle prensili visioni di Barilli: “Palermo, del resto, non ha altri leoni. Gli unici di cui ci si ricorda sono quelli ‘lenti e attoniti’, intravvisti in una notte di sogno da Barilli, forse suggestionato dalla dicitura frontale del tram che dal fiume Oreto arriva fino alla piazza dei Leoni, alle porte della Real Tenuta della Favorita. Erano belve dal ‘crine fosforescente’ che si svegliavano al crepitio delle Pleiadi”.

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