Francesco Bellavista Caltagirone. L’imprenditore appartiene una famiglia di costruttori siculo-romani (foto LaPresse)

Banca che vai, Bellavista che trovi

Stefano Cingolani

Da Mps a Vicenza fino a Ferrara. Debiti, procure, calvari. In cima alle gogne c’è sempre mr Acqua Marcia

Il crac di Banca Etruria? C’è lui. E la Popolare di Vicenza? Sempre lui. Per non parlare del Monte dei Paschi di Siena che lo ha sostenuto e foraggiato. E’ la nemesi del sistema bancario, è l’uomo più illiquido d’Italia, certo il più indebitato (per quasi un miliardo di euro), perseguitato da una lunga catena di procedimenti giudiziari, bersagliato dai magistrati nemmeno fosse un san Sebastiano degli affari (la maggior parte delle accuse sono cadute come foglie d’autunno). Il suo nome è Francesco Bellavista Caltagirone, proprietario dell’Acqua Pia Antica Marcia una delle più antiche società romane che dalla gestione degli acquedotti è passata all’immobiliare. Debiti, banche, procure, sono le tre parche che hanno sempre regolato il suo destino. E’ cugino di un altro Caltagirone, Francesco Gaetano detto Franco, al quale invece la liquidità non manca. E ha preso il cognome Bellavista (che evoca un romanzo di successo di Luciano De Crescenzo) per colpa di una legge ingiusta segno di tempi bacchettoni, ma ciò ha consentito al resto della famiglia di costruttori siculo-romani di distinguere chiaramente i rami dell’albero genealogico.

 

La dinastia risale alla Sicilia dell’Ottocento, soprattutto alla Palermo fiorita, anzi esplosa, dopo l’Unità d’Italia. Gaetano si chiamava il capostipite e il nome ricorre nella maggior parte dei suoi eredi, insieme a Francesco. Bellavista arriva con Ignazio, uno dei sei figli di Gaetano, il quale, a causa di un precedente matrimonio, non poteva riconoscere due dei suoi tre rampolli, Camillo e Francesco che come primo cognome presero, appunto, Bellavista. Le bigotte leggi vennero poi abrogate dalla Corte costituzionale, ma il doppio cognome rimase, come segno di distinzione quando i diversi discendenti cominciarono a seguire ciascuno la propria strada. Francesco Gaetano le costruzioni, il mattone, il cemento (Cementir), i giornali (Il Messaggero, Il Mattino, il Gazzettino veneto). Bellavista i grandi alberghi (sei hotel storici in Sicilia o il Molino Stucky di Venezia), i porti turistici per gli yacht dei ricconi, le operazioni finanziarie che porteranno in prigione l’uomo dalle dita d’oro come veniva chiamato nei tempi radiosi, quando passava la vita tra Montecarlo e Sankt Moritz.

 

Bellavista Caltagirone sotto questo aspetto è un Trump all’italiana, anche lui tante volte nella polvere e altrettante sugli altari, con più storia e meno successo. E senza tentazioni di mettersi in politica direttamente (meglio contare sugli amici). Ma lo stesso tipo di operazioni, tra debiti e fallimenti (anche se l’italiano ha dalla sua il peso della storia che manca a The Donald), stessa aria da bellimbusto, anche se ha mantenuto i suoi capelli con basettoni brizzolati anche quando è arrivata una incipiente calvizie: niente toupé, tanto meno color polentina alla Geppetto.

La prima clamorosa caduta, nel lontano 1979, si deve allo scandalo Italcasse. La polizia lo arresta in America e con lui vengono travolti anche i fratelli Camillo Bellavista e Gaetano Caltagirone. L’intreccio viene alla luce nel 1977, quando si scopre che l’Italcasse ha concesso ai “palazzinari” finanziamenti per 209 miliardi di lire, accordati, secondo le accuse, senza le necessarie garanzie.

 

Una normale operazione finanziaria garantita da centinaia di fabbricati, a detta della difesa. Ma è subito scandalo. I fratelli, lo si capisce immediatamente, non godono di buona stampa nonostante sfarzo, roulette, poker, feste milionarie, buone entrature nella magistratura e solidi collegamenti politici. I Caltagirone sono amici di Giulio Andreotti e di un buon numero di democristiani importanti. L’Italcasse diretta dal pio dc Giuseppe Arcaini, già membro della Costituente, secondo le indagini ordinate dal governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi è diventato una specie di forziere a disposizione dei partiti e i prestitti concessi non figurano nei bilanci delle società beneficiate. Mario Sarcinelli, vicedirettore generale della Banca centrale, responsabile della vigilanza, manda le carte alla procura. Ne scrive subito, con dovizia di particolari, Mino Pecorelli su OP, la pubblicazione scandalistica con legami oscuri con i servizi segreti, che verrà assassinato nel 1979. Ma si mettono in mezzo anche le Brigate Rosse che cercano di strappare ad Aldo Moro, rinchiuso nella prigione del popolo, i segreti dell’Italcasse e di Caltagirone. I giornali di sinistra denunciano l’intreccio perverso tra politica, banche e mondo dei palazzinari e tutto finisce in Parlamento.

 

Il nuovo vertice dell’Italcasse, guidato dal professor Remo Cacciafesta, vuole il fallimento dei tre costruttori. Arcaini è ormai da tempo latitante. Mentre a Roma i fratelli mobilitano gli avvocati e gli amici rimasti. La loro tesi di fondo è che a fronte dei debiti dispongono ancora di un patrimonio immobiliare pari a un milione e 200 mila metri quadrati che vale più di mille miliardi di lire. Ma nel 1980 succede il patatrac. Andreotti è sconfitto ed esce dal governo. Nella Dc scoppia la guerra a colpi di dossier. Alla fine di febbraio Franco Evangelisti, braccio destro del “divo Giulio”, confessa di avere preso soldi per finanziare la corrente, le campagne elettorali, il partito. Lo fa con una frase destinata a entrare nel lessico degli italiani: “Con Caltagirone ci conosciamo da vent’anni e ogni volta che ci vedevamo Gaetano mi diceva: ‘A Fra’, che te serve?’”. Evangelisti rivela anche che gli assegni sono andati anche ai fanfaniani, ai dorotei, alla sinistra di Forze nuove. E’ la classica chiamata in correo, ma diventa un suicidio politico. Evangelisti si deve dimettere e sarà il futuro presidente della Repubblica Francesco Cossiga a rispondere alle richieste di chiarimento da parte dell’opposizione e dello scrittore Leonardo Sciascia, deputato per i radicali. Ma lo scandalo è ben lontano dal placarsi. Il giudice romano Antonio Alibrandi ha appena spiccato 49 mandati di cattura contro banchieri, costruttori e industriali per un peculato da mille miliardi nel quadro delle cosiddette elargizioni facili da parte dell’Italcasse. Al blitz sfuggono in undici, tra cui i tre fratelli. Pochi giorni dopo, il 21 marzo, anche per i Caltagirone scattano le manette: Camillo è arrestato a Santo Domingo e subito trasferito in un carcere in Italia (ci rimarrà un anno). Gaetano e Francesco vengono catturati dall’Fbi a New York (e in prigione restano 14 giorni). Per tutti e tre è l’inizio di un lungo calvario.

 

Vista con il senno di poi, e soprattutto alla luce della sentenza che li scagiona completamente, è qui che la loro storia si fa davvero drammatica. Gli affari andati a rotoli, l’immagine rovinata e sullo sfondo una congiura che coinvolge interessi e persone molto più importanti di loro. I Caltagirone sono ormai diventati personaggi-simbolo. Un giornale satirico regala ai lettori falsi assegni firmati da Gaetano. Ma il peggio è passato e si sta avvicinando il momento della riabilitazione.

Il 20 gennaio 1984 la Corte di cassazione revoca in modo definitivo i mandati di cattura emessi nel 1980 per bancarotta fraudolenta. E’ la svolta, da quel momento i fratelli collezionano una serie di sentenze favorevoli. Perizie su perizie stabiliscono che al momento della richiesta di fallimento il valore del loro patrimonio immobiliare era superiore ai debiti contratti con l’Italcasse. Da malfattori falliti a vittime da risarcire. Centinaia e centinaia di articoli. Quintali di atti giudiziari. Dibattiti in Parlamento. Dimissioni di ministri e banchieri. Quasi un pezzo di storia d’Italia a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta. Non è successo nulla, o meglio nulla di quello che si è scritto e detto per anni. Ma non è finita.

 

Da Italcasse a Imi-Sir, da uno scandalo all’altro, di quelli che segnano la decadenza della Prima Repubblica. Francesco Bellavista Caltagirone ha sposato Rita, la figlia del petroliere Rovelli proprietario della Sir (resine sintetiche), che diventa il terzo gruppo chimico italiano grazie anche agli abbondanti finanziamenti dell’Imi, l’istituto pubblico di credito speciale, impiegati soprattutto per costruire il petrolchimico di Porto Torres in Sardegna. Alla fine degli anni Settanta la Sir va a gambe all’aria. Rovelli, però, fa causa all’Imi e nel 1994 ottiene un risarcimento di mille miliardi di lire. L’imprenditore è già morto da quattro anni. Riscuotono gli eredi e mettono al sicuro il tesoretto. La procura di Milano indaga e scoprirà che la sentenza fu comprata dagli avvocati del petroliere: Cesare Previti, Attilio Pacifico e Giovanni Acampora.

 

Quando Bellavista Caltagirone nel 1987 conosce Rita, lei ha 23 anni, lui 48 (è nato nel 1939) con un fascino da vendere. Lei è grande amica di Maria Angiolillo la moglie dell’ex proprietario del Tempo, da sempre vicino a Giulio Andreotti e al potere romano tra le due sponde del Tevere, che teneva salotto sulla scalinata di Trinità dei Monti. Lui con quel potere era entrato in relazione più volte. Rita e Francesco diventano ospiti assidui e ancor oggi lei lamenta che “non ci sarà mai più un altro salotto Angiolillo”. Le buone frequentazioni non sono tutto, ma quasi. E anche per Bellavista Caltagirone arriva la rimonta. E’ il 1994 quando torna nel grande giro acquistando l’Acqua Marcia, che ha in pancia un cospicuo patrimonio immobiliare.

 

La società deriva dall’antico acquedotto Marciano, costruito nel 144 avanti Cristo dal pretore Quintus Marcius Rex. Distrutto dai Goti nel 538 anno Domini, sarà Pio IX a recuperare l’antica condotta che portava acqua corrente a Roma. La società viene gestita con capitali inglesi (si chiamava Anglo Romana Water Company) ma il primo zampillo scaturirà a piazza Esedra solo nel 1870, quando i piemontesi conquistano la città. Quasi un secolo dopo, nel 1964, l’acquedotto viene ceduto all’Acea, la municipalizzata romana che gestisce anche l’elettricità. La Società Acqua Pia Antica Marcia, così chiamata in omaggio a Pio IX, diventa una immobiliare che possiede terre e palazzi, con alterne fortune. Ma è Bellavista Caltagirone a trasformarla completamente. Crea una holding per il turismo (grandi allberghi e residence di lusso), affiancata da un’altra soscietà, la Ata che gestisce i servizi di handling in particolare all’aeroporto di Linate, poco dopo arriva l’Acquamare che opera nella navigazione da diporto (a Imperia, Siracusa e Fiumicino). E qui piombano di nuovo come falchi i magistrati. Nel 2012 Bellavista Caltagirone viene messo in prigione, una carcerazione preventiva lunga un anno, per truffa aggravata nei confronti dello stato.

 

La storia è succulenta perché viene implicato Claudio Scajola, il viceré berlusconiano di Imperia nonché ministro dell’Industria, e una femme fatale, Chiara Rizzo detta lady Champagne, moglie di Amedeo Matacena, figlio dell’omonimo armatore siciliano padrone di Caronte (traghetti dello Stretto), deputato di Forza Italia, della quale si era invaghito lo stesso Scajola. Francesco Bellavista Caltagirone la riempie di regali, tra i due si stringe una calda amicizia in quel di Montecarlo dove la Rizzo viene classificata tra le dieci donne più sexy del principato. Lo scandalo si tinge di rosa. Ma finisce anche questo in una bolla di sapone. Nel 2014 il tribunale di Torino sentenzia un’assoluzione per formula piena perché “il fatto non sussiste”. Intanto l’anno prima arriva un nuovo arresto per il porto della Concordia a Fiumicino: frode e riciclaggio. Ma anche in questo caso nel 2015 il perito del tribunale esclude che le accuse abbiano una qualche sussistenza.

 

Sussistono e resistono, invece, i debiti con le banche le quali, anche sotto la pressione dei procedimenti giudiziari, vorrebbero rientrare al più presto. La Acqua Marcia è stata messa in liquidazione, e le 27 controllate hanno presentato domanda di concordato. Ora che la gogna bancaria è stata sdoganata, si cominciano a fare un po’ di conti dettagliati. La Popolare di Vicenza è esposta con Bellavista Caltagirone per 17,3 milioni, Veneto banca per 65 milioni, Etruria 60 milioni, la Cassa di risparmio di Ferrara 70, Montepaschi 60, Carige 70, Bnl 120, Banco Popolare 110, Unicredit e Rbs 240 milioni per il Molino Stucky, e altro ancora c’è nei dossier dei liquidatori giudiziari che hanno recuperato una parte dei debiti. E’ stata ceduta la partecipazione in Ata Ali servizi, lo scalo privato di Linate ceduto per 25 milioni alla Sea di Milano. E’ andata in porto la vendita di Villa Aventino a un fondo di Sorgente per 24 milioni e l’immobiliarista Giuseppe Statuto ha rilevato l’Hotel San Domenico di Taormina per 53 milioni. Il Grand Hotel et des Palmes e Villa Igea di Palermo sono nel mirino degli sceicchi, il Molino Stucky è nelle mani dell’imprenditore pugliese Leonardo Marseglia che dagli oli vegetali è passato alle energie rinnovabili. Ciascuna delle società del gruppo fallito ha un suo concordato con un commissario liquidatore. Un ginepraio che ha dilatato i tempi già lunghi delle possibili vendite. Poi c’è il peccato originale. Aver concesso tanto, troppo credito a un soggetto che metteva a garanzia immobili e faraonici progetti di sviluppo turistico. Quelle garanzie e quelle ipoteche non hanno salvato le banche dalla montagna di sofferenze.

 

Ma chi è alla fin fine Bellavista Caltagirone? Un debitore incallito, un costruttore in difficoltà, un immobiliarista incauto, un uomo che è sfuggito alla giustizia o un perseguitato dalle “toghe rosse” che ha pagato i suoi legami politici nella Dc e ancora più a destra? Un “outsider”, così s’intitola la quasi autobiografia scritta da Maria Federica Selvi e pubblicata nel 2006 che circola soprattutto tra amici e conoscenti. Già, anche lui un piccolo Trump, nato col cucchiaio d’argento in bocca come dicono gli americani, ma che ama presentarsi come un perseguitato dal sistema e un eroico campione che sfida l’establishment. E’ lo spirito dei tempi. O tempora o mores.