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Lettere

La strategia del trollaggio applicata al caso Ginevra Meloni

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

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Al direttore - Ma veramente c’è qualche politico che vuole insegnare a Meloni come si fa la mamma? Sono indignato.
Lucia Marrina

Ieri, per qualche minuto, abbiamo pensato di occuparci della folle polemica sulla presenza della figlia di Giorgia Meloni al G20 di Bali. Effettivamente, ci siamo detti, Meloni ha ragione: che razza di storia è questa che una madre che fa politica non può portarsi la figlia in giro mentre fa politica, anche ad alti livelli? Abbiamo letto le parole di Meloni, che ha accusato la sinistra di voler decidere per lei quello che una madre che fa politica può fare o non fare con la propria figlia mentre fa politica, ma dopo esserci chiesti se Meloni avesse ragione, ovvio che ne ha, ci siamo anche chiesti se, a parte un articolo un po’ sciatto pubblicato su Repubblica, ci fosse qualche politico, di sinistra, da rimproverare sul caso Ginevra Meloni. Nulla da fare. Non un solo politico è intervenuto sul caso Ginevra Meloni se non per dire che i politici intervenuti sul caso Ginevra Meloni potevano tenere chiusa la bocca. Improvvisamente, come avete capito, il caso Ginevra Meloni è diventato il caso Meloni. Ed è diventato un caso di scuola utile a inquadrare una strategia ormai ricorrente nella efficace narrazione meloniana (e salviniana). In sostanza: creare con efficacia nemici invisibili, identificare quei nemici invisibili in simboli di una fantomatica sinistra che si vuole combattere, fare di quella sinistra che si vuole combattere il simbolo di una generica sinistra che dopo aver dato prova di volerci impedire di pagare con i contanti, di voler riempire le nostre case di immigrati e di voler invadere di rave le nostre città ora dà prova di voler mettere il becco sulle scelte della mamma premier, mai criticate da nessun politico, in realtà. La strategia funziona, è il classico trollaggio di cui abbiamo già parlato, e funziona a tal punto che in queste ore a offrire solidarietà alla mamma Meloni non sono solo gli alleati di Meloni ma sono anche i suoi avversari. Un capolavoro. Di intelligenza per qualcuno e di stupidaggine per altri. Ci vediamo al prossimo trollaggio. Sarà un piacere.



Al direttore - Gian Carlo Caselli (La Stampa - 1 novembre), nel tentativo di giustificare l’ergastolo ostativo,  che urta un’indicazione specifica della Costituzione (le pene devono tendere alla rieducazione del condannato) e vìola il principio di uguaglianza davanti alla legge, si inoltra in territorio incognito, per sua stessa ammissione. E in effetti un poco vi si smarrisce, perché in materia costituzionale i diritti possono essere sì condizionati, ma i motivi vanno rintracciati con la dovuta proprietà esegetica: l’analogia, vietata nel diritto penale, è un mezzo d’interpretazione assai scabro anche tra norme costituzionali, quando vi sono restrizioni a diritti universali. Ma Caselli  sostiene che  l’uguaglianza della legge e la funzione rieducativa della pena possono ben essere derogate per i mafiosi, così come la libertà di associazione politica in partiti tollera il divieto di ricostituzione del partito fascista. Il paragone è ardito, frutto di una trama metagiuridica – i mafiosi sono nocivi non meno dei fascisti –  dispiegata, da Caselli, evocando a suo modo anche il principio di eguaglianza sostanziale, che in quei criminali incontrerebbe i peggiori nemici. Si possono nutrire fieri dubbi sull’ipotesi che una simile intenzione avesse animato Massimo Severo Giannini, Lelio Basso e i costituenti nel concepire, proporre e approvare la promessa più lungimirante dell’intera Costituzione. Comunque sia, secondo Caselli, con i boss non si può andare tanto per il sottile: occorre  sacrificare un precetto secondario (la pena rieducativa e dunque non eterna)  e anche un principio fondamentale nella sua accezione più tradizionale (la legge è uguale per tutti, anche tra gli ergastolani). Né si potrebbe pretendere – insiste il nostro – che per i boss non pentiti la Costituzione sia rispettata solo quando loro aggrada, poiché l’hanno nel massimo disprezzo in altre sue parti. Non bastano  decenni di carcere, per la liberazione condizionale occorre molto di più, si chiede l’impossibile, tanto da rendere intangibile la pena perpetua. Ora, a Caselli potrebbe essere rammentata la vicenda della norma che inibiva il diritto di voto e  l’eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista. Un divieto severo ma circoscritto – su proposta di Costantino Mortati –  ai primi cinque anni della Costituzione. Dunque, gli uomini, i capi del regime, furono trattati con un rigore più tenue (un impedimento eccezionale e temporaneo) di quello riservato al partito fascista (bandito per sempre). Pertanto, la misura selettiva d’intendere la Costituzione, addebitata ai mafiosi, si specchia in modo uguale e contrario nell’opinione di Caselli, facendone un menù à la carte. Ma i condannati  dovrebbero espiare per quanto hanno fatto, non per quello che sono. A meno che s’intenda riesumare dai recessi più cupi dell’esperienza giuridica le dottrine penali fondate sul tipo normativo d’autore e sulla colpa d’autore (Tätertyp e Täterschuld, negli annali).
Paolo Aquilanti, giurista
 

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