Lettere

In spiaggia con Giggino. Difendere le afghane dall'incubo islamista

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa


Al direttore - Al di là dell’opportunità del gabinetto balneare di Di Maio che scrive “al ministero stiamo monitorando la situazione in Afghanistan” mentre è a farsi i selfie a Porto Cesareo da almeno 4 giorni, e oltre la compagnia di Michele Emiliano e Francesco Boccia selezionata per il bagnasciuga, singolare è anche la scelta della spiaggia. Il Togo Bay di Porto Cesareo è un lido sotto sequestro dopo che il Consiglio di stato ha stabilito che la concessione data dalla regione Puglia non è valida, accogliendo invece la revoca del comune. La facoltà d’uso è stata concessa per l’occasione di fine stagione in seguito alla richiesta di dissequestro presentata dal legale del Togo che è un consigliere comunale, grande estimatore di Boccia e Provenzano. Inoltre Porto Cesareo da anni è sotto infrazione comunitaria per danno ambientale e sanitario non avendo ancora una fogna attiva, con le utenze che sversano i liquami nei pozzi neri. Eppure il depuratore, costato milioni, da anni è pronto e collettato, ma il sindaco di Nardò (da cui Porto Cesareo si è resa indipendente negli anni 70) si oppone all’allaccio alla rete fognaria nell’illusione che gli ha dato Emiliano (ma bocciata dal ministero dell’Ambiente) di un fantomatico scarico zero. Il sindaco di Porto Cesareo ha persino scritto a Ursula von der Leyen e Mario Draghi annunciando che se Pippi Mellone e Michele Emiliano non attivano il depuratore sarà un disastro ambientale. Può darsi il ministro degli Esteri fosse stato mandato lì proprio per pacificare la guerra della fogna di Nardó, non riuscendo con quella in Afghanistan. Visto che il trio era in Salento, Di Maio, Emiliano e Boccia potevano affacciarsi dall’altra parte e andare in spiaggia a Melendugno. Che dopo l’approdo del Tap non ha subìto alcun danno ambientale: bandiera blu e mare cristallino. Almeno si facevano un bagno nell’acqua pulita. 
Annarita Digiorgio


 

Al direttore - Circola un articolo del Global Times (tabloid in lingua inglese edito dal Partito comunista cinese) che sembra tanto un pizzino di Pechino alla “provincia ribelle” di Taiwan: “L’abbandono dell’Afghanistan è una lezione per il Partito democratico progressista di Taiwan”. Senza girarci troppo intorno, l’articolo invita le autorità di Taipei a non confidare troppo sul sostegno di Washington in caso di scoppio di una guerra e di un assedio cinese dell’isola. Certo, Taiwan e il mar Cinese meridionale sono strategicamente molto più importanti dell’Afghanistan, ma i costi di un confronto bellico con la Cina sarebbero incommensurabili e dunque inaffrontabili per l’America, scrive la redazione del Global Times. Dalla Siria al Vietnam, fino al tradimento di Luigi XVI durante la Guerra d’Indipendenza americana, il tabloid descrive l’abbandono degli alleati come un tratto tipico della politica estera americana. E’ un discorso fazioso ed esagerato, ovviamente, ma il messaggio obliquo di Pechino è chiarissimo: ci occuperemo anche dell’Asia centrale, se necessario, ma nessuno può più venirci a dire cosa fare nel nostro laghetto di casa. La tentazione degli Stati Uniti a isolarsi nel proprio immenso continente è una tendenza ormai in atto, tanto più che fuori dall’Europa i discorsi su democrazia e diritti umani appaiono inutili chiacchiere. L’Afghanistan non è caduto oggi, ma il giorno in cui si è capito che a Washington nessuno era più disposto a impegnarsi nel medio periodo contro il ritorno del talebani. Allora la domanda da farsi è: per chi e cosa l’impegno è ancora garantito?

Piercamillo Falasca

 

Gentile Direttore, ho letto con grande interesse il suo articolo di ieri dal titolo “Il ritorno del burqa. Femministe ci siete?”. Il titolo, immagino, consapevolmente provocatorio, rimanda invece a un tema molto importante: lei afferma con dovizia di particolari che la libertà delle donne è la vera cartina al tornasole del rapporto conflittuale tra islam e occidente. E’ sui corpi, sulla vita e sulla libertà femminile che il solco sembra essere ancora profondo. E visto quello che sta accadendo in Afghanistan, inesorabile. Sono d’accordo. E come lei sottolinea, è un problema che riguarda tutto l’occidente. Non che non se ne parli, lei non svela un segreto, se ne discute spesso tra noi femministe. Per esempio, sul fatto che il velo sia una scelta libera delle donne. Non sono affatto d’accordo. Alcune donne pensano che lo sia. A proposito di questi temi c’è un bellissimo libro di Cinzia Sciuto, “Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo”, che affronta la questione da un’ottica di studiosa femminista, ché il conflitto è tutto nel rapporto con la “libertà femminile”. Non posso approfondire in una breve lettera, ma credo che andare in fondo a questo problema sarebbe un bene, per donne e uomini occidentali, in particolare a sinistra, se mi posso permettere. E con i nostri fratelli e sorelle musulmane. Su una cosa non concordo con lei: che quella sia stata una “guerra giusta” proprio per quello che lei sostiene dopo. Siamo stati lì venti anni e in cinque giorni le afghane e gli afghani sono tornati indietro come se nulla fosse accaduto. Per questo credo che dovremmo riflettere sul fatto che la causa di quel solco profondo, la libertà delle donne, non si ripara con una guerra. Certo in questi venti anni le donne afghane hanno “respirato” maggiore libertà. Ma ora? E’ ora, forse, che ci interroghiamo e agiamo perché quelle donne non vedano sparire tutto. E’ ai talebani che dobbiamo rivolgerci. Non sono un’esperta di politica internazionale, non ho una ricetta. Certo, mi sento di aver tradito le donne afghane. Forse non abbiamo creato le condizioni perché tutto non si sciogliesse come neve al sole. Il rapporto con l’islam non ci riguarda solo oggi e solo perché i talebani sono tornati a Kabul senza che nessuno opponesse resistenza, ma anche e soprattutto perché vivo nella città più multietnica della Germania, Francoforte, e con musulmane e musulmani ci vivo tutti i giorni. Anche qui quel solco è presente. Per poter convivere bisogna guardare in faccia la realtà. Grazie per l’ospitalità.
Anna Paola Concia

 

Per non tradire le donne afghane, oggi, non c’è una ricetta, ma c’è una necessità: non nascondere a noi stessi cosa vuol dire per una donna vivere nell’incubo della sharia e non nascondere a noi stessi che la prima battaglia a difesa della libertà delle donne oggi deve essere quella per difendere le donne musulmane dall’incubo dell’islamismo. E per farlo, cara Concia, temo che non basti esportare solo la cultura. Grazie della lettera.


 

Al direttore - Bella la tua idea di stimolare le università a favorire l’accoglienza dei giovani afghani. Le università possono infatti colmare il divario tra scienza e società integrando questi aspetti nella terza missione delle università, attraverso l’innovazione sociale. La terza missione è infatti la nostra responsabilità verso la società, il desiderio di affrontare le grandi sfide della nostra vita. L’Eua (l’Organizzazione delle università europee) già in passato  aveva promosso i “corridoi culturali”  per i rifugiati con l’obiettivo di generare una conoscenza aperta e interdisciplinare, al fine di promuovere un cambiamento sociale e culturale positivo. Questo è il modo per rispondere alle sfide e alle principali questioni internazionali come quella afghana di oggi. Lo strumento è già disponibile con l’iniziativa Eui (European Universities Initiative), programma finanziato dall’Ue che prevede l’alleanza strategica di università europee in molte delle quali sono presenti università italiane. Quasi tutti i 17 consorzi finanziati al momento contengono nei loro obiettivi programmi di innovazione sociale. Eui è il miglior modo per ripensare e rivitalizzare l’Europa e i valori europei. 

Giuseppe Novelli