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Dal governo no Salvini al governo con Salvini? Pieni doveri del renzismo

Le lettere del 15 dicembre al direttore Claudio Cerasa 

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Al direttore - Un giorno di quarantacinque anni fa Pasolini scoprì il Palazzo. Si scrive con la maiuscola come il Castello di Kafka ma non gli assomiglia, perché è troppo cupo per il nostro festevole carattere nazionale. Da noi il Palazzo è sempre stato una corte, qualche volta dei miracoli, spesso di manovre più o meno oscure. Tuttavia, per la sua ubicazione sui colli di Roma, notoriamente dal clima temperato, non sarà mai un Palazzo d’Inverno. E’ quello che ancora non sembra aver capito il presidente del Consiglio, pure non certo sospettabile di bolscevismo. Nel suo discorso al Senato, Matteo Renzi lo ha allora ammonito con encomiabile franchezza a non coltivare ambizioni fuori della sua portata. Con la classica mossa del cavallo, da lui sempre prediletta, il senatore di Rignano ha così rovesciato il tavolo. Il “grazie a me” di ieri si è quindi convertito in un minaccioso “senza di me” di oggi. Niente paura, però. In qualche misura, Giuseppe Conte farà retromarcia sulla gestione e sulla distribuzione dei quattrini europei, e il governo continuerà a  vivacchiare nella sua stabile instabilità. Nel frattempo il Pd, che voleva “unire due case” e “mescolare due popoli” (copyright, rispettivamente, di Dario Franceschini e di Goffredo Bettini), assiste impotente, per una sorta di legge del contrappasso, alla dissoluzione del suo principale alleato, il “movimento dal populismo gentile” (copyright di Massimo D’Alema). Riconsiderare, please, i soggetti del nuovo  – e mitico  – campo riformista.
Michele Magno

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Al direttore - Un giorno di quarantacinque anni fa Pasolini scoprì il Palazzo. Si scrive con la maiuscola come il Castello di Kafka ma non gli assomiglia, perché è troppo cupo per il nostro festevole carattere nazionale. Da noi il Palazzo è sempre stato una corte, qualche volta dei miracoli, spesso di manovre più o meno oscure. Tuttavia, per la sua ubicazione sui colli di Roma, notoriamente dal clima temperato, non sarà mai un Palazzo d’Inverno. E’ quello che ancora non sembra aver capito il presidente del Consiglio, pure non certo sospettabile di bolscevismo. Nel suo discorso al Senato, Matteo Renzi lo ha allora ammonito con encomiabile franchezza a non coltivare ambizioni fuori della sua portata. Con la classica mossa del cavallo, da lui sempre prediletta, il senatore di Rignano ha così rovesciato il tavolo. Il “grazie a me” di ieri si è quindi convertito in un minaccioso “senza di me” di oggi. Niente paura, però. In qualche misura, Giuseppe Conte farà retromarcia sulla gestione e sulla distribuzione dei quattrini europei, e il governo continuerà a  vivacchiare nella sua stabile instabilità. Nel frattempo il Pd, che voleva “unire due case” e “mescolare due popoli” (copyright, rispettivamente, di Dario Franceschini e di Goffredo Bettini), assiste impotente, per una sorta di legge del contrappasso, alla dissoluzione del suo principale alleato, il “movimento dal populismo gentile” (copyright di Massimo D’Alema). Riconsiderare, please, i soggetti del nuovo  – e mitico  – campo riformista.
Michele Magno

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All’inizio della legislatura, quando Matteo Renzi affermava che un governo con il M5s sarebbe nato #senzadime, ci deve essere stato un fraintendimento: il senza di me di Renzi non significava “fatevelo voi il governo, senza di me” ma al contrario, in prospettiva futura, significava che “senza di me nessun governo è possibile”. E oggi a questo siamo: senza di me, senza la mia agenda, non c’è governo. Resta però un mistero da chiarire: si può costruire un sacrosanto governo per evitare di portare il salvinismo al governo e poi non escludere che per superare questo governo possa andare bene  un governo allargato anche a Salvini?



Al direttore - Complimenti per l’editoriale di oggi. Lo condivido totalmente. Per quel che concerne il dibattito sulla gestione dei fondi europei, forse è utile ricordare che un simile confronto si ebbe per la gestione dei fondi Erp sul finire degli anni Quaranta e poi venne adottata una soluzione assai simile a quella prospettata da Renzi e bocciata, senza appello, una che ricalcava quella oggi proposta da Conte era la tesi “dell’Erp  – compartimento stagno” (per inciso, De Gasperi mai si sognò di farla propria: ma siamo su livelli incommensurabili). Teniamo conto che stiamo parlando di aiuti di dimensioni confrontabili e che l’impostazione organizzativa data allora pose le basi del successivo miracolo economico. Per chi, come il sottoscritto, dopo una esperienza a capo di aziende che hanno realizzato infrastrutture, pensa che le inefficienze e la svogliatezza di gran parte dei burocrati ministeriali (e non la generica burocrazia) siano una grave palla al piede allo sviluppo del paese, piace sottolineare che tra i pregi, indicati a favore della soluzione organizzativa prescelta 70 anni or sono, vi fosse anche “l’obiettivo di assicurare la trasfusione di sangue al convalescente (la nostra burocrazia, aggiunta mia) tenendo conto di tutte le sue condizioni e di tutta la sua struttura”.  Oggi diremmo, che era ed  è una occasione irripetibile per fare emergere,  da tutte le strutture che dovranno essere coinvolte, le capacità e la voglia di lavorare, che pure ci sono, integrandole con competenze e risorse umane nuove.
Bruno Bottiglieri

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Al direttore - Alla luce della forte conflittualità stato-regioni, nelle scorse settimane l’ex segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, si è pubblicamente schierato per la revisione della Costituzione nella parte in cui stabilisce l’elezione diretta dei presidenti di regione. Come è noto, si tratta di una previsione introdotta nel 1999 dalla stessa maggioranza politica di cui Bersani faceva allora parte e che a distanza di vent’anni si vuole ora (di nuovo) modificare. Ho alcune obiezioni di metodo e di merito. Per quanto riguarda il metodo, modifiche della Costituzione sull’onda emotiva di un’emergenza rischiano di invecchiare altrettanto male, senza contare che alterare le basi su cui si regge la democrazia locale a colpi di revisione costituzionale rischia di destabilizzare ulteriormente il rapporto centro-periferia, oltreché minare la solidità dello stesso patto costituzionale. Nel merito, l’art. 122 Cost. prevede l’elezione diretta come ipotesi standard, ma lascia aperta la porta a scelte statutarie diverse delle singole regioni. La porta della differenziazione lasciata aperta dall’art. 122 Cost. non ha poi dato risultati incoraggianti, eppure ci consente lo stesso di smentire la tesi per cui il problema della conflittualità stia nell'eccessiva personalizzazione della carica di presidente della regione, indotta dalla sua elezione diretta. Si prendano gli esempi della regione Valle d’Aosta e della provincia autonoma di Bolzano (che, al pari delle altre regioni, esercita la funzione legislativa). Si tratta degli unici due casi di regioni in cui il presidente della Giunta non è eletto direttamente dai cittadini, ma dal Consiglio. Ciononostante, la conflittualità con il governo è esplosa lo stesso. Anzi, a dirla tutta, si tratta delle uniche due Regioni in cui sono state persino adottate due leggi cd. “anti dpcm”, dove, cioè, la conflittualità con lo stato è e resta a oggi massima. L’origine della tensione non mi sembra, insomma, albergare nell’eccessiva personalizzazione della politica (che è tipica del resto anche del livello statale), ma, semmai, nel rapporto mai risolto (e per certi versi non risolvibile) tra autonomia e sovranità.
Giovanni Boggero

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