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Se sarà lockdown, salviamo le scuole. Gay e libertà, ci scrive Scalfarotto

Le lettere del 24 ottobre al direttore Claudio Cerasa

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Al direttore - Due lockdown vale uno.
Giuseppe De Filippi

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Al direttore - Due lockdown vale uno.
Giuseppe De Filippi

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Al direttore - Sarà lockdown?
Luca Martinello


Difficile dire cosa accadrà. Più facile dire cosa sperare. E se nelle prossime settimane dovessero rendersi necessarie misure più forti rispetto a quelle attuali sogno un paese che scelga di considerare le scuole come servizi essenziali. “Stiamo per chiudere tutto tranne le scuole e i servizi essenziali”, ha detto pochi giorni fa a questo giornale Cliff Taylor, capo della redazione Economia dell’Irish Times. “Lo faremo perché le scuole aperte ci danno speranza. In questi mesi si è capito che sono luoghi fondamentali per il benessere psicologico dei più piccoli e che sono fondamentali anche per i genitori che lavorano. La didattica online non funziona tanto, crea troppe differenze e poi, nelle ultime settimane, abbiamo visto che la trasmissione del virus nelle classi è molto bassa. Sono tutti dati che hanno portato a questa scelta, una soluzione che per ora sembra avere senso”. Incrociamo le dita.

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Al direttore - Quod non fecerunt barbari fecero bergoglini.
Aldo Maria Valli



Al direttore - Berlusconi tenta invano di telefonare a Toti: “Piange il telefono / perché non hai pietà? / Però nessuno mi risponderà”.
Giuliano Cazzola



Al direttore - Le parole di Bergoglio sulle unioni civili, anche a volerle minimizzare, pesano. E un agnostico e liberale come me non può non coglierne la portata politica (e gioire). Ma se fossi un cristiano mi verrebbe da chiedere: ma se qui tutto è diventato amore universale, se il dettame biblico e le regole hanno ormai una valenza relativa, se la sfera del peccato arriva a confinare con quella del lecito, senza sovrapposizioni né conflitti, se tutto questo è vero, allora a cosa serve Dio? Non ci basta Kant?


Vincenzo Clemeno



Al direttore - Ho letto con attenzione l’articolo di Giuliano Ferrara sulle parole di Papa Francesco in tema di unioni gay e famiglia, e mi ha molto intrigato la sua riflessione sul tema della libertà. Dice sostanzialmente Ferrara: “Il pensiero gay è un pensiero di libertà: se consideri l’essere gay non una scelta ma un dato immutabile – una parte del creato da Dio che come tale va necessariamente accettato – neghi alla radice quel dato di ribellione all’ordine costituito che la ‘cultura gay’ necessariamente rappresenta”. Secondo me Ferrara intercetta un punto centrale della questione, ma manca in qualche modo l’obiettivo. Sarebbe bastato che facesse un colpo di telefono a uno dei suoi tanti amici gay (“Ho tanti amici gay” è l’incipit preferito di chi in questo dibattito si schiera sulle posizioni di Ferrara) per sapere che l’omosessualità non è una preferenza, né una scelta, né – tanto meno – uno “stile di vita”; che non esiste nessun esercizio di libertà nell’essere gay. Io non ho scelto il mio orientamento sessuale (questa è l’espressione giusta, perché non si tratta di una preferenza: non si “preferiscono” gli uomini o le donne come le vacanze al mare o in montagna, o la pizza margherita invece della napoletana) così come non ho scelto il colore dei miei occhi. Mio marito non è un manifesto politico, è la persona di cui mi sono innamorato. E prima di lui mi sono sempre innamorato – fisicamente, o sentimentalmente, o entrambe le cose – di altri uomini. Mi sono innamorato, non ho scelto di innamorarmi. E men che meno ne ho fatto un programma politico di libertà: al limite, sentimentalmente, il contrario. Ma il colore dei miei occhi non ha mai procurato dibattito (perché a queste latitudini è standard, come il colore della mia pelle) il mio orientamento sessuale, che non è standard, invece sì. La libertà di cui parla Ferrara non c’entra veramente nulla in tutto questo. La libertà entra in gioco, certo, ma viene in discussione in un momento successivo. Non si è liberi di scegliere chi si è, ma si deve essere liberi di vivere per quello che si è, ed è in questo che le parole del Papa hanno avuto la portata rivoluzionaria di cui si discute in questi giorni. L’omosessualità esiste da che mondo è mondo: per secoli le persone omosessuali, coperte da matrimoni di convenienza o magari dall’abito talare, si sono amate soltanto di nascosto e finché così è stato, il problema (teologico e politico) dell’omosessualità non è di fatto esistito. Il problema è sorto precisamente nel momento in cui le persone omosessuali hanno deciso di esercitare la libertà di cui io parlo: quella di vivere pubblicamente, e quindi rivendicare, non la libertà di essere omosessuali, ma la libertà di ottenere la stessa cittadinanza piena, la stessa dignità – per sé e per le proprie famiglie – delle persone eterosessuali. La “cultura gay” di cui parla Ferrara dev’essere dunque la scelta di non vivere nascosti e nella paura, la scelta di non forzarsi a essere quello che non si è per il timore di perdere affetti, lavoro, in alcuni paesi addirittura la libertà o la vita. Non è una cultura né una scelta il fatto di essere omosessuali, una scelta che – date le difficoltà e il percorso doloroso che spesso richiede di attraversare prima di imparare, come è successo a me, a volersi bene e a vivere la propria vita felici di quello che si è – nessuna persona farebbe mai per un capriccio o per l’adesione a un qualche manifesto politico libertario. Non sono un credente ma rispetto profondamente chi lo è, e non mi avventuro dunque in discussioni teologiche per le quali non ho né gli strumenti né i titoli, né penso che rilevi particolarmente per un legislatore di uno stato laico e democratico. Ma l’idea che un Papa possa prendere atto del fatto che le persone omosessuali esistano e che abbiano diritto di vivere con pienezza la propria vita, tanto quella privata che quella di cives, mi sembra una cosa appunto molto civile e anche molto bella.
Ivan Scalfarotto, sottosegretario agli Esteri

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