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Cosa ci dice dell’America di oggi il rapporto di Trump con il Covid-19

Le lettere al direttore del 3 ottobre 2020

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Al direttore - Battuta d’arresto per le vendite di idrossiclorochina.
Giuseppe De Filippi


 
Al direttore - Il Mes, “subito, senza storie”; il superamento del bicameralismo paritario “subito, senza storie”; i progetti del Recovery fund “subito, senza storie”: sarebbe, questa, la rappresentazione del cambio di registro nell’attività di governo che vorrebbe promuovere Nicola Zingaretti, secondo le osservazioni della Ciliegia. Vi è, poi, un “subito, senza storie” non riconducibile a Zingaretti, ma al governo, nel suo complesso, e riguarderebbe il “quartultimatum” della revoca della concessione ad Autostrade. Se, però, per superare gli “aut, aut” provenienti non solo da Zingaretti, si pensa di superare l’impasse modificando la compagine governativa sulla base di una nuova maggioranza alla luce del discrimine dell’adesione al Mes, sarà possibile che si risolva questo importante problema – che però coinvolge il trattato e il regolamento, i quali resterebbero intonsi con l’immanenza delle loro previsioni concernenti le condizionalità attivabili anche “in itinere” – ma ci si preparerebbe a ricevere altri “subito, senza storie”, magari di segno opposto. In sostanza, non penso che nuove maggioranze, con la confusione e il disorientamento che stanno manifestandosi, possano costituirsi intorno a questo presunto “primum movens” che sarebbe il Mes.  
Angelo De Mattia

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Al direttore - L’invito di Enrico Letta a riscoprire le virtù della democrazia deliberativa non merita, a mio avviso, di essere liquidato con un’alzata di spalle (Corriere della Sera, 1° ottobre). A patto, però, di evitare pericolosi fraintendimenti. Perché deliberare non vuol dire – come comunemente si intende – decidere, ma indica la fase del dibattito pubblico che precede la decisione. Naturalmente, essa non si esaurisce nella convocazione di un’assemblea in cui tutti parlano a ruota libera. Anche qui sono indispensabili regole, procedure, presenza attiva di esperti e di istituzioni per soppesare i pro e i contro delle possibili soluzioni a un problema collettivo, circoscrivere le ragioni di un disaccordo o di un conflitto, individuare possibili punti di equilibrio e di compromesso. Un processo dialogico, insomma, volto a formulare un giudizio non su ciò che è vero o falso, ma su ciò che è giusto o sbagliato per una comunità locale (l’unico livello in cui forme di democrazia deliberativa possono avere una reale efficacia). Non sono d’accordo con l’ex presidente del Consiglio, invece, quando esorta la sinistra a non dividersi sulla concezione della democrazia diretta di Beppe Grillo. Per ragioni sia di igiene linguistica sia politica, anzitutto. Infatti, gli esponenti del movimento di cui egli è ancora il garante continuano a utilizzare entrambe le espressioni come se fossero sovrapponibili, creando in tal modo equivoci e incomprensioni. E’ quindi necessario, se si vuole comprendere il retroterra culturale che ha favorito prima la nascita e oggi la crisi del M5s (che, credo, avrà come suo inevitabile corollario una scissione), tenere ben ferma la distinzione tra i due modelli. Tanto più se si considera che, nel lessico dei pentastellati, il termine democrazia diretta viene spesso usato come sinonimo di democrazia partecipativa. Quest’ultima è tornata alla ribalta con i movimenti new global dei primi anni Duemila. Ma le sue origini risalgono agli anni Sessanta del secolo scorso: è allora che negli Stati Uniti vede la luce sulla scia delle lotte per i diritti civili di quel decennio. Anche se, in verità, tra i suoi tratti costitutivi vi era il medesimo rifiuto radicale della rappresentanza politica di cui si sottolineavano gli effetti perversi: in particolare, la passività dell’individuo massificato. Nell’ideologia dei Cinque stelle si trova, per concludere, una duplice sfida alla democrazia rappresentativa. Come sostiene Antonio Floridia, la prima si potrebbe chiamare “riformista”: sviluppare alcuni strumenti di democrazia diretta – referendum, iniziativa legislativa popolare – all’interno di un sistema nel quale il Parlamento conserva la sua centralità. La seconda sfida si potrebbe definire “utopica”: superare il sistema rappresentativo per arrivare a un futuro senza partiti, in cui – grazie a un clic sul computer – ogni intermediazione tra cittadini e istituzioni scompare (“Un’idea deliberativa della democrazia”, il Mulino, 2017). Queste posizioni trovano ascolto anche in ambienti intellettuali progressisti, secondo cui la crisi della rappresentanza va affrontata attraverso meccanismi che dovrebbero “departitizzare” la democrazia: ad esempio, il referendum propositivo senza quorum e il sorteggio come metodo di selezione della classe politica. Solo che così, alla ricerca delle specifiche risposte che occorre dare a specifici deficit delle istituzioni democratiche, nazionali ed europee, si sostituisce la ricerca di facili scorciatoie, dove ricette tecnocratiche e ricette populiste si alimentano a vicenda.
Michele Magno


 

Al direttore - Non vuol dire nulla, lo so, ma leggendo la notizia della positività al virus da parte di Donald Trump non ho potuto non pensare al fatto che gli unici capi di governo e capi di stato che hanno preso il coronavirus sono quelli che avevano fatto di tutto per sottovalutarne la minaccia: Boris Johnson, Jair Bolsonaro, Donald Trump. E’ un caso?
Luca Morini

 

È vero che i paesi che hanno sottovalutato il virus sono quelli più colpiti (e sì: Trump, Johnson e Bolsonaro lo hanno sottovalutato) ma non direi affatto che il coronavirus colpisce solo i politici negazionisti (Berlusconi non è negazionista e il virus lo ha preso e prima di lui anche Zingaretti). Piuttosto mi viene da dire che una riflessione giusta rispetto al caso Trump – al di là del contagio – l’ha fatta ieri mattina l’Atlantic mettendo insieme alcuni dati difficili da negare. “La cattiva gestione del coronavirus da parte di Trump definisce la sua presidenza. Trump ha minimizzato la gravità della malattia, ha ingannato ripetutamente il paese su questo tema, ha cercato di attribuire la colpa ai governi locali, non si è assunto alcuna responsabilità per l’anemica risposta americana, ha messo in campo massicce manifestazioni di dissenso contro i pareri scientifici, ha spinto molti stati a riaprire tutto prima ancora che fosse sicuro riaprire, ha rifiutato di adottare, quando sarebbe stato opportuno farlo, alcune ovvie misure di sicurezza e ha minato alla base la fiducia nelle istituzioni che proteggono la sanità pubblica americana. Trump non sarebbe mai riuscito a proteggere il paese dal virus, ma alla fine non è riuscito nemmeno a proteggere se stesso”.

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