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Un duello liberista sulla rete. E i conti sul taglio dei parlamentari

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

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Al direttore - DiscoTar.

Giuseppe De Filippi


 

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Al direttore - Non mi sorprendono le pesanti critiche di Franco Debenedetti al mio intervento sul Corriere sulla rete unica Tlc: la mia posizione (dichiaratamente di parte, visto che sono e mi firmo come presidente di Open Fiber) è che l’unica alternativa rispettosa delle regole della concorrenza e degli interessi del paese è tra la competizione infrastrutturale (normale in Europa e finalmente avviata anche in Italia grazie a Open Fiber) oppure una rete unica neutrale e wholesale-only; tertium non datur. La posizione di Deb. è invece da sempre a favore di una terza soluzione, il ritorno al monopolio di Tim (in singolare contraddizione con le sue dichiarate convinzioni liberiste).

Mi sorprendono invece gli errori in fatto e le fake news che costellano la sua lettera. Faccio qualche esempio.

1. Le reti tv cavo in Italia mancano non perché ne fu riservata la costruzione a Sip, come scrive Deb., ma perché un accordo consociativo Dc-Pci-Psi vietò per molti anni alle reti cavo di distribuire più canali tv; così in Italia nessuno ebbe convenienza a investire nel cavo, e fu salvaguardato insieme il duopolio Rai-Fininvest delle tv nazionali e il monopolio Telecom della rete Tlc. Negli altri paesi europei le reti cavo (che garantiscono oggi connettività fino a 10 Gbps!) offrono invece una alternativa alla rete dell’ex monopolista, che è stato costretto a investire per non perdere troppo terreno.

2. Deb. traccia un quadro fantasioso sulla qualità della rete Fttc di Tim (fibra fino all’armadio, poi rame), facendone conseguire che gli investimenti in reti interamente in fibra (Ftth) per cui è nata Open Fiber siano pressoché inutili. Se è vero che in certi casi le reti Fttc possono raggiungere 100 e anche 200 Mbps (ma solo in download), è altrettanto vero che questo dipende dalla posizione dell’armadio stradale rispetto al luogo servito e dal numero di utenti collegati a quell’armadio. Un armadio stradale collocato oltre 500 metri dal luogo servito non può garantire neppure 30 Mbps in download e 15 Mbps in upload, come ammette anche Tim. In più le reti integralmente in fibra garantiscono prestazioni molto superiori in termini di latenza, affidabilità, minor consumo di energia. In assenza di reti cavo alternative e di fronte alla (legittima) scelta di Tim di ritardare al massimo la sostituzione del rame con la fibra, si capisce dunque la scelta dei governi Renzi e Gentiloni di promuovere la nascita di una società dedita alla realizzazione di reti in fibra, scelta peraltro capace di innescare anche in Italia quella competizione infrastrutturale che in tutta Europa aveva costretto l’ex monopolista a accelerare i suoi investimenti. In tre anni e mezzo, dalla sua nascita, la nuova entità ha connesso in fibra quasi 9 milioni di abitazioni, su un totale di 30: poco, tanto? Per una new entry, comunque un buon risultato. Se oggi si parla di rete unica per connettere in fibra, in pochi anni, il 100 per cento del paese, è perché Open Fiber esiste.

3. Il recupero italiano nelle classifiche europee non comincia dal 2012, come Deb. scrive, ma dal 2017, grazie a Open Fiber: facile verificare.

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4. Deb. cita il codice europeo, che privilegia due modelli, il coinvestimento e il modello wholesale-only, e scrive che quest’ultimo sarebbe stato inserito solo “per le pressioni di Open Fiber”. La verità è che il codice ha preso atto che in molti paesi europei già operavano infrastrutture wholesale-only, principalmente a livello locale o regionale, ma non solo; e che tale modello fornisce le migliori garanzie sotto il profilo della concorrenza fra gli operatori, come già avevano sottolineato nel 2014 le Autorità italiane della Concorrenza e delle Comunicazioni.

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5. Il modello di coinvestimento privilegiato dal codice europeo non corrisponde a nessuno degli accordi preesistenti fra operatori, come quello fra Tim e Fastweb (Flash Fiber), contrariamente a quanto scrive Deb. Tali accordi non nascevano per essere aperti a tutti i potenziali coinvestitori, ma erano limitati alle sole parti contraenti. Il nuovo codice invece prevede l’apertura dell’offerta di coinvestimento a tutti gli operatori interessati, non prevede una rete unica, ma più reti che finanziano e realizzano insieme nuove tratte comuni in Ftth o Fwa, e soprattutto devono garantire parità di trattamento a tutti gli operatori cosa che l’accordo proposto da Tim non faceva, come invece fa la infrastruttura neutrale a 20 Gpon di Open Fiber

Per quanto riguarda le aree bianche, Deb. accusa Open Fiber di aver richiesto una proroga di tre anni per il completamento della rete che sta costruendo per conto dello Stato. Ma non ricorda gli impegni che Tim aveva assunto nel 2015 di portare la fibra entro tre anni almeno fino agli armadi (cabinet) in molte aree grigie, impegno che ora dichiara di potere mantenere solo entro il 2021, cioè per l’appunto con un ritardo di tre anni. Deb. omette poi di ricordare che l’inizio dei lavori di Open Fiber è stato ritardato di quasi due anni a causa dei ricorsi presentati da Tim spesso solo a scopi ostruzionistici (ricorsi che Tim ha sinora tutti perduti), e che i ritardi nella copertura delle aree rurali in Italia sono da imputarsi principalmente ai ritardi nel rilascio delle autorizzazioni amministrative (quasi 100.000) e alle complicazioni delle procedure a evidenza pubblica imposte al concessionari, come ha evidenziato il Rapporto Desi 2020 della Commissione europea.

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7 Con riferimento al numero di utenti Ftth in Italia, Deb. finge di ignorare che la migrazione delle famiglie e delle imprese sulla nuova rete in fibra di Open Fiber (molto più perfomante di quella ibrida fibra-rame di Tim) è stato ostacolato da pratiche anticoncorrenziali di market preemption messe in atto da Tim , pratiche di recente pesantemente sanzionate dall’Autorità della Concorrenza. In conclusione: si può discutere di quale sia la soluzione migliore per l’accelerazione dell’infrastruttura digitale del paese fra l’attuale concorrenza Tim/Open Fiber o la creazione di una rete unica. In altra sede ho più volto esposto i pro e i contro delle due soluzioni. Quel che non si può proporre, perché non rispetterebbe le regole a garanzia della concorrenza e non servirebbe ad accelerare la migrazione dal rame alla fibra, è un impossibile ritorno al monopolio di Tim.

Franco Bassanini


 

Al direttore - Molteplici sono i motivi di chi ha argomentato il No al taglio dei parlamentari: il rigetto della demagogia contro la democrazia rappresentativa; la ridicola giustificazione del risparmio; la mancanza di una visione riformatrice istituzionale; e la scusa di un primo passo verso non si sa che cosa. Ma non sono stati a sufficienza discussi quelli che, a mio parere, sono i due argomenti forti – molto forti – che emergono dalla storia politica, elettorale e parlamentare d’Italia. Da circa mezzo secolo la critica rivolta da tutti gli orizzonti al parlamentarismo si è basata su due punti: a) i parlamentari sono scelti sempre meno dai cittadini e sempre più dalle oligarchie partitiche; b) per il crescente distacco dalle basi elettorali, deputati e senatori sono percepiti come una “casta” dal difficile ricambio. Fino agli anni 70 del Novecento lo scrutinio proporzionale di lista partitica con voto di preferenza individuale consentiva ai personaggi di partito legati agli elettori del loro territorio di emergere grazie ai voti di preferenza che li legittimavano (talvolta in maniera clientelare) come rappresentanti della circoscrizione d’appartenenza. Con la riforma del 1993 per 3/4 uninominale e 1/4 a liste bloccate circoscrizionale (“Mattarellum”) quel legame eletti-elettori in parte si rafforzava quando il candidato del collegio era scelto sul territorio (con primarie di partito), e in parte si allentava quando veniva “paracadutato” dall’alto. Con i successivi sistemi elettorali, complicati, barocchi, con giri di elezioni affidati a oscuri algoritmi nazionali, deputati e senatori sono stati eletti con una notevole dose di casualità sia nella candidatura che nell’elezione. Ora, con la proposta del taglio è probabile che l’esile filo che ancora sussiste tra eletto ed elettore si assottigli ancor di più: perché il deputato è eletto in macro-collegi in cui il candidato locale difficilmente riesce a stabilire un rapporto con l’intera constituency; perché nella posizione di lista o collegio che ha maggiori possibilità di riuscire viene collocato chi gode dei favori del vertice del partito che sa come organizzare le candidature; e perché la campagna elettorale a largo spettro richiede notevoli risorse finanziarie che superano quelle “legittime” di cui può disporre il singolo. Così la riduzione dei parlamentari si risolverà necessariamente in un altro passo verso l’allentamento del rapporto elettore-eletto a favore di quello che un tempo si chiamava “il potere partitocratico”, e oggi controllo oligarchico dei rappresentanti del popolo. Un’ultima parola ai numeri che è la cosa più importante ma rivela la fake news secondo cui l’Italia, oggi, avrebbe il tasso più alto di rapporto tra popolazione e parlamentari. Il calcolo va fatto sui membri della “camera bassa” d’ogni nazione e non sulla somma delle due camere in quanto il bicameralismo costituzionale, come sa bene ogni studente, deriva storicamente o dalla garanzia della doppia lettura contro i colpi di mano della maggioranza, o dalla diversità di funzioni (nazionali e federali, ad esempio). Per le principali nazioni europee l’attuale rapporto popolazione/deputati è il seguente: Spagna 1 deputato per 131.000 abitanti, Germania 1 per 117.000, Francia 1 per 112.00, Italia 1 per 105.000, Regno Unito 1 per 98.000, Belgio 1 per 70.000, Polonia 1 per 43.000, Svezia 1 per 28.000, Danimarca 1 per 27.000. Se i deputati fossero ridotti da 630 a 400 il rapporto per l’Italia diverrebbe 1 per 150.000 cittadini superiore anche a quello di tutte le altre grandi nazioni europee.

Massimo Teodori 

 

Capisco ma non condivido (anche perché avendo l’Italia un bicameralismo paritario le due Camere vanno trattate in modo paritario e così facendo l’Italia passerebbe dall’avere 951 parlamentari all’averne 600, più o meno quanto la Spagna, che ne ha 616, ma che ha 14 milioni di abitanti in meno, e 178 in meno della Germania, che però ha 22 milioni di abitanti in più). E onestamente penso abbia ragione Pietro Ichino quando dice – lo ha scritto sul nostro giornale – che “quando questo taglio entrerà in vigore, il rapporto numerico tra membri del Parlamento nazionale e cittadini in Italia sarà in linea con la media di quelli degli altri maggiori paesi europei (oggi è nettamente superiore) e resterà comunque molto più alto rispetto a quello statunitense”; quando ricorda, sulla base della sua esperienza personale, che “la riduzione di un terzo dei parlamentari gioverebbe non poco alla qualità del dibattito politico e rafforzerebbe non poco la posizione dei parlamentari stessi nei confronti dei rispettivi apparati di partito”; e quando nota che esistono “molte più conseguenze politiche negative in un successo del No il 20 settembre prossimo – in particolare il rischio di avvitamento del paese in una spirale conservatrice, il trionfo dell’immobilismo – che rischi seri per la democrazia in un successo del Sì, che potrebbe invece innescare una stagione di altri mutamenti del nostro sistema istituzionale sempre più arrugginito, anche assai più importanti del taglio dei parlamentari che ora siamo chiamati a confermare”. E penso abbia ragione anche l’onorevole Dario Parrini quando, sempre in un intervento sul Foglio, nota che “una cosa in sé giusta, ma incompleta e imperfetta, si perfeziona e si completa, non si abbatte”. Un caro saluto.

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