La politica è reato? Difendere l'associazionismo. Pericolosi tic sui rom

Al direttore - 50 mila per la privacy, e manco stavano pomiciando.

Giuseppe De Filippi

 


 

Al direttore - La campagna delle ruspe contro i reietti delle baraccopoli non è stata una bolla di sapone. I fatti vergognosi di Torre Maura, una delle zone più critiche della Capitale, sono lì a testimoniarlo. Una poesia (forse) di Bertolt Brecht recita: “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, / e fui contento, / perché rubacchiavano. / Poi vennero a prendere gli ebrei, / e stetti zitto, / perché mi stavano antipatici. / Poi vennero a prendere gli omosessuali, / e fui sollevato, / perché mi erano fastidiosi. / Poi vennero a prendere i comunisti, / e io non dissi niente, / perché non ero comunista. / Un giorno vennero a prendere me, / e non c’era rimasto nessuno a protestare”. Questi versi si ispirano a un sermone del pastore protestante Martin Niemöller, pieno di sdegno per l’apatia degli intellettuali tedeschi di fronte all’ascesa al potere di Hitler. L’incipit allude all’accusa di “wandertrieb”, istinto al nomadismo, rivolta agli zingari dal Terzo Reich. Schedati fin dal 1938 dalle SS di Heinrich Himmler, dopo il “decreto Auschwitz” (dicembre 1942) furono internati e sterminati nei lager. Ma oltre mezzo milione di morti non ha lasciato quasi traccia nei documenti, nei libri, nella memoria collettiva. E’ invece attivo e operoso, soprattutto quando non riusciamo a controllare il fondo oscuro delle nostre paure più profonde, lo stereotipo dello zingaro come “diverso radicale”. Anche se stanziale, anche se insediato in Italia da generazioni, nella scala del disprezzo si ritrova sempre un gradino al di sotto di qualsiasi etnia venga a occupare i piani bassi nella gerarchia dei migranti. Una marginalità sociale che spesso lo spinge ad accettare e, in qualche caso, perfino a esibire con orgoglio il ruolo che gli viene attribuito, cioè di praticare il furto e l’accattonaggio molesto. Dopo la sollevazione del quartiere romano contro l’insediamento di una ventina di famiglie di “alieni”, Salvini è tornato a minacciare un repulisti generale, in cui peraltro già si distinguono i gentiluomini di Forza Nuova e CasaPound. Non basta però denunciare il clima di odio alimentato dalle pulsioni xenofobe e razziste del leader della Lega. Occorrono analisi meno “sentimentali” e più documentate della condizione dei rom e sinti. Sono ventiseimila quelli che vivono in emergenza abitativa, in maggioranza cittadini italiani. Una realtà che chiama in causa anche lo squallore ambientale, talora drammatico, delle nostre periferie urbane. Tradotto: una miscela esplosiva che garantisce un alto dividendo elettorale ai professionisti dell’intolleranza. Che fare, allora? Lo chiedo anzitutto a quella sinistra la quale da un anno ripete che bisogna “ripartire dagli ultimi”. Chi crede che in politica risolvere i problemi difendendo la dignità delle persone sia ancora la strada giusta è in attesa di lumi.

Michele Magno

 

Il problema di cui forse non ci rendiamo conto è che quando si parla di rom abbiamo smesso di giudicare caso per caso, in modo individuale, e abbiamo iniziato in modo più o meno involontario (speriamo, involontario) a discutere del tema non ragionando su ciò che è illegale e ciò che è legale ma ragionando sulle responsabilità collettive, parlando della razza, di un insieme di persone, e facendo cioè un passo in avanti per trasformare il rom in un problema per ciò che è, non per ciò che fa. C’è bisogno di ricordare come finì l’ultima volta che qualcuno disse, negli anni Trenta, in Germania, che il problema degli zingari è il loro essere un miscuglio pericoloso di razze deteriorate?

 


 

Al direttore - Gli attacchi cui da qualche tempo è sottoposta, non solo in Italia, la signora Margrethe Vestager per le sue posizioni sui salvataggi bancari inducono a spezzare una lancia a favore della commissaria europea alla Concorrenza. Se non altro per ragioni di equilibrio. Alla responsabile dell’Antitrust Ue si rimprovera soprattutto l’applicazione rigida delle regole sul bail-in. Ma a ben vedere dove sta questa cieca e feroce attuazione? Nel caso del Monte dei Paschi si è giunti, negoziando, alla ricapitalizzazione precauzionale di un istituto sulla cui solvibilità molti analisti avevano dubbi. Nel caso delle Banche Venete, aziende di credito sulla cui valutazione di impatto sistemico la stessa Bce ha oscillato, si è permessa la più favorevole soluzione della liquidazione sulla base della normativa nazionale alla risoluzione. Nel caso di Carige infine si è consentito l’intervento del Fondo di tutela dei depositi (Ftd) per salvare una banca anch’essa in stato prefallimentare. Quanto alle quattro banche poste in fretta e furia in risoluzione nel 2015 a causa dei colpevoli ritardi del governo nel recepimento della direttiva bail-in e di quella sugli Schemi di tutela dei depositi, la sentenza Tercas fa ritenere che il no all’intervento del Ftd pronunciato dall’Antitrust Ue fosse illegittimo. La questione è complessa e se ci sarà, come probabile, il ricorso della Commissione, la Corte di giustizia valuterà. Una domanda però sorge spontanea. Sono davvero contenti i banchieri, soprattutto i titolari di banche sane sopra una certa taglia, che si sia aperta la strada a un impiego ad libitum del Fondo nei salvataggi del credito? Sembrerebbe di sì, ma a volte l’ufficialità non coincide con l’ufficiosità.

Marco Cecchini

 

Capisco la provocazione, ma su questa partita fatico a non dare ragione a chi, come Antonio Patuelli, presidente dell’Abi, sostiene che l’errore di Vestager ha aggravato le crisi bancarie in Italia, facendole diventare più costose per i risparmiatori, gli investitori e le banche concorrenti. L’Europa, in realtà, grazie alla sentenza del Tribunale Ue sul caso della Teramo Cassa, ha dimostrato di avere gli anticorpi giusti per riparare agli errori commessi ma un errore resta un errore anche se poi qualcuno riconosce l’errore commesso (cosa che la nostra adorata Vestager non ha ancora fatto).

 


 

Al direttore - Ho la peste. L’ho scoperto oggi, non come Don Rodrigo, trovandomi un bubbone sotto l’ascella, bensì studiando la legge del 9 gennaio 2019, cosiddetta “spazza corrotti”: “Ai sensi e per gli effetti del presente articolo, sono equiparate ai partiti e movimenti politici le fondazioni, le associazioni e i comitati la composizione dei cui organi direttivi sia determinata in tutto o in parte da… persone che siano o siano state o che ricoprano o abbiano ricoperto, nei dieci anni precedenti, incarichi di governo al livello nazionale, regionale o locale ovvero incarichi istituzionali per esservi state elette…”. Per dieci anni dovrò scontare il fatto di essere stato un “politico”, quindi colpevole a prescindere; con valore retroattivo il mio impegno in politica si trasfigura in un potenziale reato, comunque commesso. Ho capito: ho la peste, per essere stato scelto come assessore dai sindaci Giuliano Pisapia e Beppe Sala, con l’aggravante di essere stato eletto dai cittadini. Ho capito anche che l’alleanza tra Lega e 5 stelle non vuole spazzare via i corrotti, a cui dovrebbe pensare, e fortunatamente pensa, l’ordine giudiziario. Lega e 5 stelle vogliono spazzare via, dalla politica, i competenti, gli indipendenti, i cittadini attivi, per avere al proprio servizio una corte di miracolati sotto perpetuo ricatto, spinti alla politica dalla disperazione del quotidiano e non dalla vocazione al servizio pubblico.

Filippo Del Corno, assessore alla Cultura di Milano

 


 

Al direttore - Negli ultimi giorni, si è imposto all’opinione pubblica un aspro dibattito relativo alla cosiddetta legge spazza corrotti e alla sua applicabilità, oltre che ai partiti politici, anche a quegli enti del Terzo settore nelle cui cariche direttive siano presenti politici o ex politici. Ad accendere il dibattito è, in particolare, l’articolo 20 della norma, che impone a tali soggetti maggiori obblighi in termini di trasparenza relativa ai contributi percepiti. A una lettura che non tenga conto del complesso scenario in cui essa si inserisce, la norma sembrerebbe dettata dal buon senso: essendo la corruzione in Italia un fenomeno molto diffuso che ha più volte coinvolto soggetti del Terzo settore che venivano gestiti in modo non proprio ortodosso, estendere le misure di prevenzione sembrerebbe essere una condizione desiderabile. Cosa, quindi, rende la norma così tanto dibattuta? In primo luogo, una maggiore trasparenza reca maggiori costi (umani ed economici). Quindi, pur ragionando in una logica di piena legalità, per un ente del Terzo settore, avere un esponente politico nei propri organi collegiali, implicherebbe un costo. La conseguenza naturale è che tale esponente politico si troverebbe a essere un “ostacolo” per l’Ente e, data la grande presenza di politici nelle “poltrone” del Terzo settore, la portata della norma avrebbe impatti significativi sia sulle organizzazioni, sia sui singoli soggetti. In secondo luogo, va detto, che ciò che desta preoccupazione è la constatazione che questa norma sia stata introdotta nell’èra Salvini, che sul Terzo settore, ha delle idee molto chiare. Il timore, dunque, è che la norma possa assumere una valenza più ideologica, che tecnico-economica. In questo panorama di non-detti, però, ci sono alcuni punti che potrebbe essere utile sottolineare: il primo, è che in un paese come il nostro, l’applicazione di un concetto di “accountability” dovrebbe essere sempre ben accolto. Il secondo è che la legge presenta criticità “strutturali” che non vanno trascurate, come ad esempio il fatto che sia fin troppo facile aggirare la norma: allo stato attuale, per sfuggire a queste condizioni, basta semplicemente rimuovere dalle cariche tutti gli esponenti politici. La norma, inoltre, non prevede una distinzione tra varie categorie di enti del Terzo settore, quando in realtà è un mondo che include soggetti estremamente differenti dal punto di vista patrimoniale. Infine, non è stato rilevato che il costo sociale della norma è molto elevato e che si potrebbero raggiungere risultati analoghi in modo più efficiente, aumentando il livello di deducibilità dei contributi e inserendo l’obbligo di indicazione, in sede di dichiarazioni fiscali, degli enti beneficiari delle liberalità. Con una completa deducibilità, sarebbero pochi i soggetti che ometterebbero tali contributi, e non dovrebbe essere difficile, incrociando i dati, “selezionare” i soggetti a più alto rischio. Anche perché non è detto che i soggetti a rischio siano solo i politici. In ogni caso, la più importante considerazione in merito al dibattito, è che in questa Italia del cambiamento, una norma anticorruzione venga così fortemente osteggiata.

Stefano Monti

 


 

Al direttore - Cordoni e picchetti contro gli sgomberi per sfratto, è così che nasce la leadership movimentista e carismatica di Ada Colau. In Spagna sono gli anni dello sdegno popolare per i disastri della crisi economica, del dramma delle 170.000 famiglie sulla strada, della lunga lista nera dei suicidi. Le proposte di governo e opposizione dei partiti tradizionali, il Popolare e il Socialista, sono giudicate inadeguate e unilaterali da chi vede crescere disagi e diseguaglianze. Dal 2015 Colau è sindaco di Barcellona e ora in campagna elettorale per la rielezione. Due giorni fa è venuta a Milano per confrontarsi con Beppe Sala alla Fondazione Feltrinelli nell’incontro pubblico “L’Europa delle città”. Nel primo pomeriggio ha presieduto una sessione di lavoro ristretta sui modelli urbani contemporanei. Il vocabolario era quello dell’attivista, la visione e la progettualità quelle di un’autentica riformista. Tra tanti leader nazionali della sinistra europea immobili e interdetti, i sindaci di alcune grandi città si affidano alla concretezza delle politiche urbane per ricostruire i termini oggi ancora inafferrabili di una politica progressista. Con Colau, a sorpresa, forse può tornare la logica di quel riformismo illuminato che aveva guidato le grandi trasformazioni urbane e sociali avviate da Pasqual Maragall. Grazie a una “pratica democratica continua”, come le piace ripetere, opposta a quella dei partiti tradizionali “fatti di riti e gerarchie chiuse”, rompe anche quell’accidia verbosa, quell’immobilismo apatico dell’estrema sinistra tradizionalista. Rispetta il decalogo completo di un governo democratico brillante: importanti interventi per l’aumento del patrimonio di alloggi popolari, investimenti infrastrutturali sul trasporto pubblico locale, attenzione concreta all’ambiente, incremento dei centri scolastici. Sviluppa di una rete estesa decentrata di servizi ai quartieri fatta di Cap (centri di assistenza sanitari), biblioteche comunali, centri civici, fabbriche della Creatività, dedicate alla formazione e alle pratiche dei giovani artisti. Quasi una riedizione contemporanea della teoria e della pratica dell’urbanistica democratica italiana degli anni 70. Le aree più periferiche vengono collegate sempre meglio attraverso un servizio più efficiente di trasporto pubblico locale. Aumenta il finanziamento a enti e istituti di ricerca come condizione di sviluppo economico fondato sull’innovazione tecnologica e produttiva. Viene difeso caparbiamente il bene comune coinvolgendo al contempo le forze del privato produttivo, stabilendo ad esempio che il 30 per cento di ogni nuovo intervento edilizio sia destinato ad alloggi a canone sociale. Ma sono quelle che Colau chiama “le piccole cose” che rendono speciale la sua amministrazione. Non disdegnatele, il libero mercato qui non c’entra! Tra le tante istituisce il dentista municipale per quelli che non potrebbero neppure mettere piede negli studi di franchising odontoiatrico, lancia il sistema di contrasto alla “povertà energetica” per garantire anche ai più poveri luce, acqua e gas. Al contempo fonda la prima società pubblica spagnola di gestione e distribuzione dell’energia elettrica. Coraggio riformista e parole da pasionaria che si ritrovano nel testo scritto a quattro mani con Sadiq Khan la scorsa estate “Ai sindaci servono maggiori poteri e maggiori risorse […] potremo dire di aver vinto solo quando saremo in grado di garantire che tutti, nelle nostre città, possono avere accesso a una casa decent, secure and affordable”. Il passaggio tra lo “Stop agli sfratti!” e il “Sí se puede!” è il passaggio tra la combattiva denuncia di un danno sociale e la capacità di una risposta fattiva. Un “sí se puede!” ripetuto così tante volte che il suo bambino, trascinato fin da piccolo nelle manifestazioni in cui campeggiava lo “Stop agli sfratti!”, lo urlava entusiasta anche ogni volta che vedeva un cartello di Stop al traffico.

Chiara Ponzini

 

Storia interessante ma riformista e Podemos non suonano bene insieme. Ma il tema è sempre lì: il populismo ha davvero gli anticorpi per non essere in eterno una forma di estremismo?

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