Occhi su Israele

Mariarosa Mancuso

“Fauda” mette d’accordo spettatori tra loro diversissimi. E’ la magia delle storie raccontate bene

Occhi puntati su Israele. Da lì è arrivata la serie “In Treatment”, originale “BeTipul”: lo showrunner Hagai Levi ha poi adattato il format per l’America (da qui il remake italiano diretto da Saverio Costanzo, con Sergio Castellitto). Non che ci fosse granché da sistemare, a parte la guerra di riferimento, la nostra era contro la mafia. Da lì è arrivata “Homeland – Caccia alla spia”, titolo originale “Hatufim” (saggiamente lo showrunner Gideon Raff si è fermato dopo le prime due stagioni, la quantità di doppigiochi sensati non è infinita). Per entrambe, pioggia di Emmy e spettatori che discutono dei personaggi e dei colpi di scena alla macchinetta del caffè (al boccione d’acqua, per gli americani: entrambi i luoghi di passaparola ormai sono superati dai social, ma l’immagine resta).

 

  

La prossima serie israeliana da riproporre in terra americana potrebbe essere “Fauda”. Arabo per “caos”, con particolare riferimento – non da parte degli arabi, ovviamente – alla Cisgiordania e alla striscia di Gaza. Viene inoltre adoperata come parola in codice per le operazioni sotto copertura da interrompere immediatamente, quando l’infiltrato è stato scoperto.
Accade già nella prima puntata, con due agenti che durante un matrimonio palestinese si fingono addetti al servizio dolci (l’intera serie, dodici puntate, era in programma alla Festa di Roma). Passano con i vassoi (per una svista di regia nessuno prende neppure un dolcetto, non è possibile che tutti già sospettino di loro) e intanto cercano di individuare un feroce terrorista parente dello sposo. Si chiama Abu Ahmed, detto la Pantera, ha sulla coscienza 116 israeliani, gli agenti dell’antiterrorismo erano convinti di averlo ucciso già due anni prima. Sbagliato: è ancora vivo e in grado di far danni. Al matrimonio, in effetti, ci stava arrivando travestito da vecchietto. Uno degli agenti in precipitosa ritirata – “fauda fauda” dicono al centro comandi – scende dall’auto per inseguirlo. Solo e in territorio ostile, senza più la copertura pasticciera.

 

 

Hanno ideato la serie – già rinnovata per la seconda stagione, va in onda sulla tv via cavo Yes – Avi Issacharoff e Lior Raz. Un giornalista specializzato in medio oriente, e un attore che durante il servizio militare aveva fatto parte di un mista’arvim, i reparti antiterrorismo che si mimetizzano tra gli arabi. Nella serie ha la parte di Doron Kavillio, appunto l’agente che credeva di aver ucciso il terrorista, si è ritirato a produrre vino, ora deve rifare il lavoro da capo. Racconta che scrivere la serie lo ha liberato dagli incubi – è anche diventato famoso e tutti lo riconoscono, ma all’inizio voleva un altro attore – e assieme al collega si stupisce per il successo della serie.

 

“Pensavamo che la sinistra ci avrebbe accusati di razzismo, e la destra ci avrebbe accusati di troppa bontà verso i palestinesi”. Queste secondo gli showrunner le previsioni della vigilia, ampiamente smentite. “Fauda” sembra aver messo d’accordo spettatori tra loro diversissimi, che la guardano e la commentano a dispetto del clima non proprio pacificato. Non è strano, come non è strano che una serie sul terrorismo abbia successo tra spettatori che per il terrorismo soffrono. E’ la magia delle storie raccontate bene, che mettono in ordine il mondo – e lo rendono accettabile – più di quanto riescano a fare i politici.

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