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Che cos’è una regione

La versione di Cassese

Un istituto che compie 50 anni, ma nessuno si chiede se il disegno territoriale italiano è ancora attuale

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Festeggiamo cinquant’anni dell’istituto regionale. Ma nessuno si chiede da dove ha origine il disegno territoriale italiano e se è ancora attuale.

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Festeggiamo cinquant’anni dell’istituto regionale. Ma nessuno si chiede da dove ha origine il disegno territoriale italiano e se è ancora attuale.

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Il grande geografo Lucio Gambi ha scritto: “Con la Costituzione del 1948 le regioni non sono state disegnate ‘ex novo’ in base a una analisi delle reali situazioni del Dopoguerra.

 

Sono state chiamate ‘regioni’ delle ripartizioni territoriali di valore non giuridico, che già esistevano dal 1864 col nome di ‘compartimenti’: erano destinate cioè a inquadrare territorialmente le elaborazioni e i risultati di inchieste e delle rilevazioni statistiche nazionali. Ma neanche questi ‘compartimenti’ potevano fregiarsi di una nascita ‘ex novo’, perché in realtà erano stati per lo più costituiti con l’aggruppamento di un certo numero di province tra loro finitime, che prima dell’unificazione nazionale avevano fatto parte del medesimo Stato, e in quest’ultimo avevano ricoperto insieme uno spazio che nei secoli della romanità imperiale o in epoca comunale aveva ricevuto un nome regionale. I “compartimenti” del 1864 risultano quindi da uno sforzo di identificazione di quelle vecchissime regioni, la cui fama era stata ribadita e divulgata nel Rinascimento da una rigogliosa tradizione di studi. Però è irrefutabile che le identificazioni regionali da cui erano nati i ‘compartimenti’ statistici del 1864, in molte zone della penisola non avevano più alcuna presa nel 1948 quando la nuova costituzione entrò in funzione” (Lucio Gambi, L’irrazionale continuità del disegno geografico delle unità politico-amministrative, in L. Gambi - F. Merloni (a cura di), Amministrazioni pubbliche e territorio in Italia, Bologna, il Mulino, 1995, p. 34; la discussione è poi continuata tra storici e geografi: si veda Floriana Galluccio e Maria Luisa Sturani, L’“equivoco” della geografia amministrativa: ripensare le dinamiche del “découpage” a partire da Lucio Gambi, in “Studi storici”, 2008, n. 1, p. 155 ss.).

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Insomma, i padri costituenti guardarono a un passato lontano, tanto lontano da esser stato dimenticato e da non corrispondere alla realtà amministrativa degli anni 40, quando fu scritta la Costituzione. Ma tutto si svolse senza un dibattito?

Durante e dopo i lavori per la Costituzione, i geografi sono stati in larga misura contrari alla ripartizione dell’Italia in 20 regioni. Ad esempio, Aldo Sestini nel 1947 si espresse in termini critici sulla trasformazione dei compartimenti statistici in regioni. E si dichiarò favorevole a criteri di ripartizione di carattere ambientale e antropico. Mentre Toschi, nel 1947, si dichiarò favorevole al ritaglio costituzionale, nonostante fosse incline a ritenere importante la coincidenza tra regione naturale e regione politica. Il dibattito si riaccese negli anni 60. Lucio Gambi, nel 1963, scrisse che “la regione è prima di ogni cosa una popolazione legata da interessi collettivi… e solo di conseguenza uno spazio ove quella si insedia”. E nel dibattito sono intervenuti Compagna nel 1964 e Muscarà nel 1968.

Ora è chiara la contestata genesi del numero e del “taglio” delle regioni. Che è successo dopo?

La situazione è peggiorata successivamente. Infatti, oltre allo scarso radicamento storico delle regioni si sono aggiunte modificazioni che sono state riassunte sempre da Lucio Gambi, nel saggio prima citato (p. 23): la redistribuzione della popolazione con massicci spostamenti dalle aree montane alle regioni di pianura e alle fasce litorali; un radicale rivolgimento nei rapporti tra classi produttive, con il trasferimento degli investimenti e della forza lavoro dal mondo agricolo a quello dell’industria, e al terziario; una dilatazione, nelle pianure, delle aree urbane e la formazione di conurbazioni; lo svuotamento delle zone di emigrazione, non solamente quelle montane, ma anche quelle di pianura con poche industrie. Questo vuol dire che è necessaria una generale revisione dei confini territoriali perché i rapporti tra comunità e territori sono cambiati.

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Non si doveva allora modificare la Costituzione?

Su questa necessità hanno richiamato l’attenzione la fondazione Agnelli, poi il deputato Morassut e Bassetti, il professor Miglio e la Lega Nord, per finire con De Matteis e Gambi stesso. Un economista come Giancarlo Mazzocchi, nel saggio su Gli aspetti economici dei nuovi compiti del governo locale (in “Sindacalismo”, 1967, p. 6) ha anche indicato i criteri per la ridefinizione del disegno amministrativo applicando la teoria economica alle strutture amministrative. Dal punto di vista economico, la distribuzione di funzioni tra diversi livelli di governo esistenti o da creare si può dire adeguata quando permette di massimizzare il godimento di economia di dimensioni, di internalizzare gli “effetti esterni” delle spese e di razionalizzare il processo di distribuzione o pianificazione territoriale delle localizzazioni residenziali industriali.

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Ma anche altri paesi lottano contro le tradizioni amministrative “ingessate”.

Così la Francia, con l’eccessivo numero di comuni. Ma senza successo. Paradossalmente, il paese che è stato sempre citato per la sua più antica e radicata tradizione di “self government”, il Regno Unito, è riuscito a realizzare una radicale riforma alla fine degli anni 60. Bisognerebbe quindi seguire l’esempio del Regno Unito, dove fu istituita la “Local Government Boundaries Commission” nel 1949; poi, nel 1958, la “Local Government Commission”, e, nel 1969 la “Royal Commission on Local Government” (Redcliff-Maud). Quest’ultima osservò che i territori di molte autorità erano superati, non riflettevano più i modelli di vita e di lavoro; la divisione tra contee e borghi – osservava il rapporto – prolunga una separazione artificiale tra grandi città e loro periferie. Secondo il rapporto, vi erano troppe autorità e troppo piccole. Fu a seguito di questo rapporto che il governo locale di più antica tradizione, quello britannico, subì un radicale cambiamento con una forte diminuzione del numero degli enti e un conseguente grande aumento delle loro dimensioni, sia in termini di territorio, sia in termini di popolazione.

E in Italia?

Per procedere, in Italia, bisognerebbe seguire la procedura indicata dall’articolo 132, primo comma, della Costituzione, che prevede la possibilità di fusione di regioni, cercando prima di stabilire forme di collaborazione, che poi sbocchino in nuove entità amministrative, di più grandi dimensioni, fissando come criterio generale una dimensione minima (la Costituzione stessa indica come limite minimo 1 milione di abitanti).

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