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La versione di Cassese

Il caso Piacenza, il ruolo dello stato e i meccanismi di allarme che mancano in Italia

Buone ragioni per pretendere una minore tolleranza delle deviazioni. Parla Sabino Cassese

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Ci possiamo fidare di questo Stato, dopo quel che abbiamo letto su certi magistrati e su alcuni carabinieri, proprio coloro ai quali è affidata la giustizia e la sicurezza? Se chi deve assicurare la pacifica convivenza dei cittadini e l’irrogazione delle sanzioni dà il cattivo esempio, che speranze abbiamo in una società ben ordinata e pacifica?

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Ci possiamo fidare di questo Stato, dopo quel che abbiamo letto su certi magistrati e su alcuni carabinieri, proprio coloro ai quali è affidata la giustizia e la sicurezza? Se chi deve assicurare la pacifica convivenza dei cittadini e l’irrogazione delle sanzioni dà il cattivo esempio, che speranze abbiamo in una società ben ordinata e pacifica?

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Comincio con una nota di ottimismo. Proprio la circostanza che deviazioni di vario tipo vengano fuori e che vi sia chi indaga, valuta, eventualmente sanziona, fa ben sperare.

  

Ma siamo sicuri che si tratti di eccezioni? Quanto estesa è l’illegalità nei corpi che dovrebbero assicurare legalità e rispetto della legge?

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Nessuno potrebbe rispondere a questa domanda, e questo è un motivo di preoccupazione. Ma procediamo ordinatamente. Qui il primo motivo di preoccupazione è che le illegalità sono state individuate nel corpo dell’“État puissance” ed è quindi in gioco proprio la ragione stessa dello Stato. Il “Commonwealth”, la “Civitas”, scriveva Thomas Hobbes nel 1651, è il “Leviatano” al quale gli individui trasferiscono loro diritti perché assicuri la pace all’interno e la difesa all’esterno. Il potere coercitivo di cui è dotato lo Stato Leviatano dipende dalla rinuncia compiuta dai singoli individui. Che succede se proprio nel cuore dello Stato Leviatano non viene assicurato il rispetto delle regole dettate per tutti, e si afferma, in modi vari, la violenza, invece che la pace?

 

Perché la violenza?

Chiamo violenza la violazione del pari trattamento nei concorsi (mi riferisco a quello che sta emergendo su alcuni concorsi per selezionare magistrati) e la selezione sulla base dell’appartenenza e non sulla base delle capacità (mi riferisco a quello che abbiamo letto sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura). Chiamo violenza quel che, secondo i “media”, è accaduto a Piacenza in una caserma dei Carabinieri. Per tutto ciò attendiamo naturalmente i processi e le decisioni. Ed è necessario che si concludano subito.

 

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Questo è il primo motivo di preoccupazione. Il secondo?

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Il secondo è il seguente: se c’erano “mele marce”, perché non ci se n’è accorti per tempo? Perché non ha funzionato un “meccanismo di allarme”? Perché chi doveva intervenire non l’ha fatto tempestivamente, anche allo scopo di non far marcire altre mele? Perché è venuta meno la capacità di controllare e, se possibile, prevenire comportamenti devianti? Dove sono andati gli anticorpi?

 

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Ora, però, in attesa delle decisioni sollecite, a seguito degli accertamenti, che si spera obiettivi e completi, bisogna indagare sulle cause e sui rimedi

Temi ambedue difficili. Si possono solo fare ipotesi. Cominciamo dai Carabinieri. La prima delle con-cause è, in questo caso, la dimensione. Sono forse troppi per assicurare e mantenere un adeguato standard di qualità. Ricordo il motto di Nitti: pochi e ben pagati (invece dei molti e mal pagati). L’Osservatorio sui conti pubblici presso l’Università Cattolica di Milano, diretto da Cottarelli, ha recentemente calcolato che l’Italia ha un insieme di corpi di polizia (Carabinieri, Polizia di Stato, Polizia penitenziaria, Guardia di Finanza) con un numero di addetti più alto, rispetto alla popolazione, se confrontato con quello di altri Paesi europei (con l’eccezione di quelli di più piccole dimensioni): un totale di più di 300 mila, di cui 110 mila sono Carabinieri. Le dimensioni contano, dal punto di vista organizzativo. Il gigantismo è un fatto negativo. Più si amplia il numero, meno selettiva è la scelta degli addetti. C’è poi il fattore reclutamento, sia in termini di zona geografica di provenienza, sia in termini di metodi di selezione. C’è chiaramente qualcosa che non funziona, forse nel carattere troppo meccanicistico del reclutamento, che non tiene conto a sufficienza del profilo umano/psicologico/culturale dei concorrenti. Nonostante il carattere gerarchico della struttura militare, inoltre, c’è quasi sicuramente un indebolimento del principio di autorità e della necessaria severità nelle valutazioni. Questo può esser dovuto anche a un ulteriore fattore: l’eccessiva lunghezza della linea di comando, per cui il vertice ha minori possibilità di sapere quel che accade in periferia.

 

Per la magistratura?

Se vi sono tanti magistrati figli di magistrati, il corpo diventa troppo endogamico, con conseguenze sui meccanismi di reclutamento, come appare dai fatti emersi sui “media”, sui quali attendiamo solleciti processi e decisioni. Se i colloqui tra coloro che debbono decidere le assegnazioni agli uffici considerano dei candidati solo l’appartenenza e semmai l’orientamento politico, e non la qualità dimostrata nelle precedenti esperienze professionali, la scelta dei titolari delle funzioni direttive può non corrispondere alle attitudini e all’esperienza delle persone. Inoltre, se si registra la discussione in camera di consiglio non solo si vìola un principio essenziale dell’attività collegiale della giustizia, ma si produce anche una frattura, si manifesta un sfiducia nei confronti dei propri colleghi. Nel caso della magistratura, un fattore che ha indebolito struttura ed efficacia dell’ordine giudiziario è costituito dalla maniera onnicomprensiva nella quale è stata declinata l’indipendenza. Questo ha prodotto un corpo costituito da tante monadi. Esse debbono poi aggregarsi per prendere decisioni collettive (nel Csm) e lo fanno sulla base di interessi piuttosto che di idealità, o di esigenze organizzative, o di culture. Responsabili ultimi: la malintesa funzione, assegnata al Csm, al di là delle leggi, di organo di autogoverno, invece che di difesa nei confronti degli altri poteri; la breve durata nella carica dei titolari degli organi di vertice, che impedisce loro di svolgere il ruolo di autorità morale in grado di correggere, suggerire, indirizzare.

 

I rimedi?

Minore tolleranza delle deviazioni: “Un severo minimo di governo”, per usare l’espressione cara al grande scrittore Jorge Luis Borges. Sistemi di reclutamento che diano dei candidati un quadro più completo e un sistema di premi e sanzioni che non sia fondato su automatismi. Più formazione all’interno, anche rafforzando lo spirito di corpo. Infine, “meccanismi di allarme” che segnalino con maggiore tempestività il malfunzionamento di uffici e strutture. Considerando il vasto ambito degli utenti sia dei corpi chiamati a mantenere l’ordine pubblico, di quelli che amministrano la giustizia, anche l’opinione degli utenti sarebbe utile.

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