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Perché l'Europa?

Per la prima volta le elezioni europee si svolgeranno intorno a temi europei. Alcuni effetti pratici

Professor Sabino Cassese, il 22 gennaio ad Aquisgrana Macron e Merkel hanno firmato un trattato bilaterale sulla cooperazione e integrazione, che rafforza e completa quello del 1963. Non è un tradimento del comune impegno dei due paesi con l’Unione europea?

L’esperienza della globalizzazione conosce già queste forme di bilateralismo nell’ambito degli accordi multilaterali. E’ un aspetto sottolineato nel trattato tra Germania e Francia, che fa diretto e frequente riferimento all’Unione. D’altra parte, anche le clausole di “opt-out” sono a carattere non multilaterale. E non dimentichi l’esistenza di più cerchi nell’Unione europea, quali Schengen e l’Eurozona. 

 

Su quali materie si estende il trattato? Perché se ne dà da alcuni un giudizio tanto critico?

Politica estera, difesa, terrorismo, sicurezza, cultura, istruzione, ricerca, clima, sviluppo sostenibile e cooperazione transfrontaliera. Richiamo la sua attenzione sulla previsione che un membro del governo di ciascuno Stato prenda parte almeno una volta a trimestre al Consiglio dei ministri dell’altro Stato. Importante interpenetrazione dei vertici governativi.

 

E la questione del seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite?

E’ l’aspetto negativo del trattato, visto che l’appartenenza all’Unione doveva spingere nel senso di operarsi per avere nel Consiglio di sicurezza un rappresentante dell’Unione. La realizzazione dell’obiettivo non è realisticamente vicina, ma questo non attenua la violazione del congiunto impegno dei due paesi nell’Unione europea.

 

Come complessivamente giudica il trattato?

Il mio giudizio è positivo per due motivi, che riguardano gli elementi costitutivi dell’Unione. Questa deve tollerare le diversità, ammettere il bilateralismo. E si costruisce, non è imposta dall’alto. Il trattato franco-tedesco concorre ad ambedue questi obiettivi. Questo punto di vista non è condiviso da quelle menti astratte che considerano l’Unione come una costruzione geometrica.

 

Lei è sempre stato tra gli ottimisti, quando anche i più accesi europeisti lamentavano burocratizzazione, iperregolazione, lentezza dell’Unione europea.

Un pensatore francese, Pascal Bruckner, nel libro La tirannia della penitenza. Saggio sul masochismo occidentale, Parma, Guanda, 2007, ha osservato: “Si dimentica troppo spesso che l’Europa contemporanea non è nata, come gli Stati Uniti, da un giuramento collettivo che asserisce che tutto è possibile: è nata dalla stanchezza delle ecatombi”. Gli ha fatto eco Paolo Rossi, in uno scritto su Europa masochista, ripubblicato in A mio non modesto parere, Bologna, il Mulino, 2018: “negli odierni europei sono presenti… una spinta all’autofustigazione e un assenso alla servitù, una invincibile tendenza al masochismo”.

 

Che cosa ci dovrebbe, invece, indurre all’ottimismo?

Il fatto che nel sessantennio passato non ci siano stati, come nel cinquantennio precedente, 60 milioni di morti nel teatro europeo. E’ scomparsa una nazione grande come l’Italia di oggi. I feriti sono stati tre volte tanti. Per non dire delle distruzioni materiali. Ma c’è di più. E’ diventata realtà l’idea sviluppata dagli illuministi della pace positiva, che non è un intervallo tra due guerre, ma un ordine internazionale nel quale la guerra è assente.

 

Punto di vista ottimistico non condiviso da tanti intellettuali, anche i più europeisti.

Parafraso di nuovo il grande Paolo Rossi, a sua volta ispirato da Bacone: gli intellettuali amano più la veste degli araldi della disperazione che quella degli annunciatori di speranze.

 

Ma l’Unione non fa abbastanza.

Non è vero, come stanno dimostrando sul Foglio Dario Bevilacqua, Edoardo Chiti e Mario Savino. Di chi pensa sia il merito di poter andare in aereo da Roma a Palermo, e ritornare, con la somma di 40 euro? L’Unione europea fa parte della nostra vita di ogni giorno, ma non ce ne accorgiamo. Perché pensa che sia così difficile, se non impossibile, la Brexit? La nostra appartenenza all’Unione ricorda la storiella nota e ripresa da David Foster Wallace: due pesci giovani nuotano spensierati, incontrano un pesce anziano che proviene dalla direzione opposta, che chiede loro “com’è l’acqua oggi?”; i due pesci giovani proseguono, poi si arrestano e uno chiede all’altro: “acqua? Che cosa è l’acqua?”.

 

E l’altra critica: l’Europa è lenta.

Semplicemente sbagliata. Per affermarsi, gli Stati nazionali hanno impiegato da duecento a cinquecento anni. L’Unione si è consolidata in mezzo secolo.

 

E le continue crisi?

“L’Europa vive di crisi” disse il cancelliere tedesco Helmut Schmidt il 29 gennaio 1974 a Londra. Due anni dopo gli fece eco Jean Monnet, che scrisse nelle sue memorie che l’Europa sarebbe stata la somma di soluzioni alle crisi. Come funziona lo sviluppo a mezzo di crisi? Si costruisce un gigante regolatorio, che rimane però un nano finanziario. Si crea la moneta unica, non il potere finanziario unico. Si crea l’Unione bancaria, non l’assicurazione sui depositi. Il primo passo sbilancia l’organismo europeo, che sarà costretto a fare il secondo passo. Insomma, l’Unione è come la bicicletta: bisogna pedalare, se non si vuole cadere. E’ solo così che si può creare una “unione sempre più stretta”, come stabiliscono i trattati.

 

Rimangono altre critiche, il deficit democratico e le crescenti contestazioni.

La tesi del deficit democratico fu formulata da un osservatore inglese quando il Parlamento europeo non era eletto direttamente dai popoli nazionali. Ora c’è questa legittimazione diretta, accanto a quella indiretta assicurata dalla partecipazione dei governi nel Consiglio. L’Europa intergovernativa funziona come ascensore, per continuare a conferire compiti all’Unione, quella comunitaria per assicurare la gestione quotidiana di tali compiti. Pensa che sarebbe stato possibile devolvere tanti compiti all’Unione, se non ci fosse stato un così forte elemento intergovernativo? Questo, a sua volta, consente ai governi di tenersi d’occhio l’un l’altro. La democrazia è controllo: in questo modo, aumentano i controlli. La democrazia è “accountability”, anche “horizontal accountability”, non solo quella verticale (quella rispetto al “mio popolo”, come dice il presidente del Consiglio dei ministri, diméntico del fatto che le due forze politiche che fanno parte del suo governo non comprendono neppure la maggioranza degli italiani). Quanto alle contestazioni, le dirò che l’Unione non è mai stata tanto popolare come da quando è tanto contestata. Finalmente è entrata nella politica, che è innanzitutto divisioni. Per la prima volta queste prossime elezioni europee si svolgeranno intorno a temi europei, non a temi nazionali.

 

Assicurata la pace, quale è ora il compito dell’Unione?

Mantenerla, la pace. Ma anche dare una voce all’Europa, visto che il mondo diventa sempre più comunicante e retto da potenze regionali. Pensa che la piccola Francia, la piccola Germania, la piccola Italia sarebbero ascoltate dalla Cina, dall’India, dagli Stati Uniti? Il mondo si autogoverna per grandi regioni.

 

Ma che cosa è l’Unione?

Molti europeisti hanno risposto alla domanda qualche tempo fa dicendo che è un “oggetto politico non identificato”. Dobbiamo renderci conto di due grandi lezioni. La prima è quella degli illuministi scozzesi, che ci hanno insegnato che gran parte delle istituzioni non nasce e cresce “by design”. Sono frutto di forme contraddittorie, di compromessi, di aggiustamenti. L’altra è stata espressa da Musil: “Il cammino della storia non è quello di una palla da biliardo che segue una inflessibile legge causale; somiglia piuttosto a quello di una nuvola”. Insomma, sottovalutiamo cronicamente la possibilità che il futuro si allontani dal percorso inizialmente previsto. Unica cosa certa, quella che Luigi Einaudi disse all’Assemblea costituente nel 1947: gli Stati sono un “anacronismo storico”.

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