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Alberto Ronchey fu innanzitutto un implacabile demolitore di miti

Giuseppe Bedeschi
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I l 5 marzo di dieci anni fa moriva, a 83 anni, Alberto Ronchey, uno dei principi del giornalismo politico italiano. Era stato inviato speciale a Mosca, direttore della Stampa, editorialista del Corriere della Sera e poi di Repubblica. Fu anche ministro per i Beni culturali nei governi Amato e Ciampi (1992-94).

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I l 5 marzo di dieci anni fa moriva, a 83 anni, Alberto Ronchey, uno dei principi del giornalismo politico italiano. Era stato inviato speciale a Mosca, direttore della Stampa, editorialista del Corriere della Sera e poi di Repubblica. Fu anche ministro per i Beni culturali nei governi Amato e Ciampi (1992-94).

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La sua autorevolezza nasceva dal fatto che egli aveva una visione eccezionalmente ampia dei processi economici e politici del nostro tempo: le sue analisi spaziavano dall’America all’Europa, dalla Cina all’Africa. E non si trattava mai di facili generalizzazioni. Perché Ronchey partiva sempre da dati molto precisi relativi a ciascun paese: la produzione agricola, la produzione industriale, il tasso di sviluppo di questi settori e il loro rapporto con la popolazione complessiva, le caratteristiche della pubblica amministrazione, e poi le ideologie, i partiti politici, i grandi movimenti di opinione. Il suo punto di partenza era sempre sociologico-empirico (come in Raymond Aron, da lui molto ammirato), e la sua documentazione straordinariamente ricca.

A questo metodo sociologico-empirico si accompagnava una forte passione anti ideologica. Passione e anti ideologia possono sembrare termini antitetici, ma in Ronchey si univano strettamente, perché il suo impegno era sempre diretto (con passione, appunto) a demolire i miti, a mostrare come i sogni fossero solo sogni, come i miraggi fossero solo miraggi, come le utopie fossero solo utopie. In questo suo lavoro di demolizione dei miti politici è da cercare, credo, il fascino profondo che emanava dalla sua personalità di editorialista e di scrittore di cose politiche.

Per questi motivi Ronchey non fu mai popolare a sinistra. Anzi, fu sempre guardato con profonda diffidenza, e a volte con burbanzosa supponenza (il famoso Fortebraccio, nei suoi corsivi sull’Unità, lo chiamava “l’ingegnere”). Tale diffidenza e tale supponenza erano tanto più forti quanto più i miti dissacrati da Ronchey plasmavano gli animi e le menti della sinistra (o di grandi settori di essa) fino al fanatismo. Oggi, per i giovani, è difficile comprendere la cecità ideologica del ’68 e degli anni 70.

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Ma basti ricordare che nel 1976, alla morte di Mao Zedong, celebri intellettuali si produssero in incredibili giaculatorie. Per esempio Franco Fortini scrisse sul manifesto che “la coscienza della distanza ha sempre accompagnato il suo genio con una vibrazione o rifrazione che impediva di vedere in lui solamente il politico e il capo di un popolo; che dava ad ogni sua azione o parola più di un senso e più di una durata”. Mao alterava “i contorni delle azioni con l’unione di linguaggi antichi e modernissimi, di favola popolare e di saggistica intellettuale, di dialettica delicata o violenta, confondendo i secoli e le culture, i vivi e i morti”.

Contro il delirio del maoismo Ronchey assunse subito un fermo atteggiamento critico: la “rivoluzione culturale” maoista, il Grande Balzo in avanti, erano stati un fallimento completo e avevano provocato il collasso dell’economia: il reddito pro-capite dell’agricoltura cinese era sceso a quello prebellico.

Un altro mito preso di petto da Ronchey fu quello cubano-castrista. Tutti i mali di Cuba venivano attribuiti dai castristi all’imperialismo yanqui, mentre tutti gli obiettivi (l’industrializzazione, la modernizzazione, il benessere) venivano concepiti come a portata di mano, realizzabili con un intenso sforzo della volontà, mentre veniva abolita ogni iniziativa privata, anche la bottega del barbiere. Ma in nessun luogo, diceva Ronchey, una economia industriale era nata in questo modo.

Bisognerebbe ricordare anche alcune formule incisive introdotte da Ronchey, come “il fattore K” (da Kommunizmus): che voleva significare che in un Paese (come l’Italia) in cui c’era un grande partito comunista, l’alternanza al governo era impossibile, per gli stretti legami ideologici, politici e finanziari che tale partito aveva con l’Unione sovietica. Anche questa formula rientrava nella vocazione di Ronchey: quella di essere un implacabile demolitore di miti.

Giuseppe Bedeschi

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