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La campagna omicida contro i ragazzi a Baghdad

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I l primo giorno di ottobre del 2019 scoppiano proteste senza precedenti a Baghdad, la notte dopo i responsabili delle forze di sicurezza si riuniscono per decidere assieme al primo ministro che cosa fare e come affrontare l’emergenza. Ma con loro grande sorpresa al posto del primo ministro trovano a dirigere la riunione il generale iraniano Qassem Suleimani (fonte: Associated Press). E’ arrivato all’aeroporto molto tardi e poi è volato in elicottero fino alla Zona Verde per spiegare ai comandanti iracheni come soffocare le proteste. “E’ successo anche da noi in Iran – disse secondo due testimoni presenti all’incontro – e siamo riusciti a tenere tutto sotto controllo”. Si riferisce al fatto che i Guardiani della rivoluzione, il corpo militare di cui lui è un leader, in Iran si occupano di spegnere ogni manifestazione di dissenso con la violenza. Suleimani è un falco, nel 1999 firmò una lettera dei comandanti pasdaran al presidente in cui chiedeva repressione dura “altrimenti interverremo noi”. Le ondate successive di proteste finiscono tutte con decine di morti ammazzati dalle forze di sicurezza – i pasdaran sono la spina dorsale di queste forze.

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I l primo giorno di ottobre del 2019 scoppiano proteste senza precedenti a Baghdad, la notte dopo i responsabili delle forze di sicurezza si riuniscono per decidere assieme al primo ministro che cosa fare e come affrontare l’emergenza. Ma con loro grande sorpresa al posto del primo ministro trovano a dirigere la riunione il generale iraniano Qassem Suleimani (fonte: Associated Press). E’ arrivato all’aeroporto molto tardi e poi è volato in elicottero fino alla Zona Verde per spiegare ai comandanti iracheni come soffocare le proteste. “E’ successo anche da noi in Iran – disse secondo due testimoni presenti all’incontro – e siamo riusciti a tenere tutto sotto controllo”. Si riferisce al fatto che i Guardiani della rivoluzione, il corpo militare di cui lui è un leader, in Iran si occupano di spegnere ogni manifestazione di dissenso con la violenza. Suleimani è un falco, nel 1999 firmò una lettera dei comandanti pasdaran al presidente in cui chiedeva repressione dura “altrimenti interverremo noi”. Le ondate successive di proteste finiscono tutte con decine di morti ammazzati dalle forze di sicurezza – i pasdaran sono la spina dorsale di queste forze.

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Il giorno dopo l’arrivo notturno di Suleimani a Baghdad il numero di morti nelle manifestazioni cresce all’improvviso, fino a diventare un massacro: da sei a oltre cinquanta. Sui tetti appaiono cecchini non meglio identificati che sparano sulla folla. I medici notano che i colpi centrano le vittime alla testa e al petto. Accanto alle forze di sicurezza arrivano squadroni in passamontagna che hanno divise senza segni che possano permetterne l’identificazione. Eppure l’atteggiamento sicuro di Soleimani era poco giustificato. A dispetto della repressione, gli iracheni continuano a protestare in piazza a Baghdad e la crisi si allarga sempre di più, giorno dopo giorno. Nel giro di tre mesi si superano i cinquecento morti.

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Suleimani nella Zona Verde è di casa e si comporta da padrone da più di un decennio. Agli inizi del 2008 l’allora presidente dell’Iraq, Jalal Talabani, incontrò il capo delle forze americane, il generale David Petraeus, e gli passò il cellulare perché leggesse un messaggio dedicato all’americano: “Caro generale Petraeus, dovresti sapere che io, Qassem Suleimani, controllo la politica dell’Iran per quel che riguarda l’Iraq, il Libano, Gaza e l’Afghanistan. L’ambasciatore (iraniano) a Baghdad è un membro della Forza Quds (l’unità militare guidata da Suleimani). E l’individuo che lo sostituirà è anche lui un membro della Forza Quds”. Il messaggio era chiaro: le decisioni iraniane in Iraq le prendo io, regolati di conseguenza. Il dettaglio che ci siamo scordati è che il vice di Talabani, l’uomo che nel 2008 mostrava il telefonino a Petraeus, era Adil Abdul Mahdi, che oggi è il primo ministro dell’Iraq. Passano gli anni, ma l’influenza di Suleimani non passava.

Quando venerdì tre gennaio un drone americano ha colpito la macchina dove viaggiava Suleimani, con lui c’era anche Abu Mahdi al Muhandis, capo delle Kataib Hezbollah, che in arabo vuol dire i battaglioni del Partito di Dio, una milizia che secondo molti testimoni (e secondo Human Right Watch) è colpevole di avere massacrato decine di manifestanti in un garage di Baghdad. Qui di seguito un pezzo di un reportage da Baghdad pubblicato pochi giorni dopo la strage. Rende l’idea di cosa possono fare le milizie di Suleimani.

* * *

Gli uomini sono arrivati poco prima delle otto di sera a bordo di veicoli comuni, sono entrati tra le colonne in cemento armato del parcheggio di al Sinak quando era buio. Il parcheggio è un edificio di sei piani che in queste settimane è usato dai manifestanti di Baghdad per dormire, ci sono tende e coperte e sacchi a pelo dappertutto. Quando qualche ora dopo la notizia dell’attacco è finita sui social media è sembrata un’operazione mordi e fuggi, un drive by shooting: le automobili arrivano, gli occupanti sparano sulla folla e poi accelerano via. Invece era stata un’operazione molto più lenta e pianificata per distruggere il morale dei manifestanti.

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Gli uomini hanno catturato tutti quelli che hanno trovato dentro al garage, hanno gettato bottiglie molotov su per una delle due rampe di scale che portano al tetto – per bloccare con le fiamme una via di fuga – e sono saliti dall’altra rampa. Sul tetto hanno legato le mani dei manifestanti, poi ad alcuni hanno sparato, altri li hanno accoltellati. Hanno bruciato le tende usate per dormire. Un manifestante aveva i capelli tinti di biondo, glieli hanno tagliati per punirlo di essere “gay”. Cantavano slogan sciiti – la corrente dell’islam (anche) delle milizie filoiraniane in Iraq. Poi hanno trascinato alcuni dei cadaveri fino al parapetto e li hanno gettati di sotto in strada.

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I morti sono almeno venti ma non è possibile dare un numero definitivo. Dal tetto hanno anche sparato verso un posto di blocco della polizia in una via accanto e hanno ucciso quattro agenti. Alla fine dell’operazione hanno caricato i manifestanti catturati – un’ottantina – ai piani inferiori su alcuni autobus e li hanno portati via. A quel punto erano le quattro del mattino. Per uscire sono passati da piazza Khulani, a trecento metri da piazza Tahrir, hanno sparato alla cieca dai finestrini delle auto e si sono dileguati in modo misterioso in una parte di Baghdad che da settimane è stata trasformata in una gigantesca zona pedonale perché sia le forze di sicurezza sia i manifestanti hanno alzato barricate in tutte le vie d’accesso.

E ora viene la parte migliore, quella che è impossibile da comprendere fuori dall’Iraq. Dei manifestanti sequestrati dagli stragisti quella notte, alcuni sono ancora dispersi ma molti sono rispuntati fuori qualche giorno dopo. Alcuni di loro hanno detto al Foglio di essere stati prima interrogati dai loro rapitori e poi spostati sempre con i bus in un altro luogo (nella parte est della capitale) e passati ai servizi di sicurezza iracheni, che li hanno di nuovo interrogati e si sono presi i loro telefoni. Immaginate quanto ci mette un team specializzato di tecnici a ricostruire la vita di una persona a partire dal telefono: i suoi contatti, le sue chat, le sue foto. Ti impadronisci di un centinaio di telefoni e puoi mappare una parte delle proteste. Chi fa cosa, chi ha un ruolo di leader, chi fa parte del comitato centrale, come funziona tutto.

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Quando parli con i testimoni che quella notte del massacro di al Sinak c’erano – e che ti fanno vedere le ferite da coltello – li senti usare questa strana espressione: il “Terzo Partito”. Indica l’assortimento di milizie armate che in Iraq vive di vita propria. Non sono il governo, non sono le forze di sicurezza, ma si occupano lo stesso della repressione e possono commettere violenze che il governo e la polizia invece non possono, almeno in via ufficiale. Stanno con il governo ma non rispondono al governo perché la loro lealtà politica è verso l’Iran – da cui arrivano i soldi che le tengono in vita.

Così i miliziani passano con la loro colonna di veicoli attraverso posti di blocco che dovrebbero essere chiusi, ammazzano torturano e rapiscono manifestanti e poi invece che sparire nel nulla vanno dalle forze di sicurezza – che da loro riceve i prigionieri e i loro telefoni, quando invece dovrebbe arrestarli. Quando si dice che in Iraq le milizie filoiraniane spadroneggiano, s’intende questo. Ed è contro questa situazione che i manifestanti di Tahrir protestano, con chance di successo piuttosto basse. (dan. rai)

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