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Un foglio internazionale

Con il wokismo si ragiona in termini di pretese, non per interesse comune 

Il destrutturalismo nei campus americani ha portato a un’ideologia ostile all’universalismo repubblicano, dice Joachim Le Floch-Imad. Scrive Le Figaro (25/8)
 

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Le Figaro – Cos’è la decostruzione? In che misura questa trae ispirazione dai pensatori francesi e da ciò che gli universitari americani hanno chiamato “French Theory”?

Joachim Le Floch-Imad – Come ricordato da Pierre-André Taguieff nella nostra pubblicazione, la decostruzione nasce dalle letture francesi di Nietzsche e Heidegger. Il termine acquisisce una notorietà internazionale quando è ripreso da Jacques Derrida e il suo capolavoro “De la grammatologie” viene tradotto in inglese. L’azione decostruzionista, tuttavia, resta in quell’epoca letteraria e filosofica. Essa propone anzitutto un nuovo modo di leggere i testi, invita alla ricerca e a porsi degli interrogativi. A partire dalla fine degli anni Sessanta, i campus americani si appassionano delle grandi figure francesi dello strutturalismo e del postmodernismo, si pensi a Derrida, Foucault, Deleuze, Althusser, Bourdieu, ecc. I loro testi vengono letti, commentati, decontestualizzati e, molto spesso, semplificati. Alcune riflessioni rimaste marginali o astratte in Francia vengono così politicizzate e acquisiscono una portata normativa.

 

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Mentre in Francia fanno la loro comparsa i “nuovi filosofi”, la controcultura e i campus americani sono il teatro della nascita della “French Theory”, corpus estremamente vasto che raggruppa autori e correnti molto diversi fra loro, da Simone de Beauvoir a Edward Said. Benché gli autori francesi, talvolta a loro insaputa, abbiano permesso di elaborare oltreoceano un certo numero di concetti, di valori e, alla fine, un’ideologia, quest’ultima deve molto al puritanesimo morale e al rimosso delle patologie americane (schiavitù, leggi di segregazione razziale, ecc.). Come scrive Taguieff, la decostruzione equivale oggi a “un pensiero prometeico ipercostruttivista, che incita a distruggere tutto per poi ricostruire tutto”. Col pretesto di mettere fine alle ingiustizie e alle discriminazioni, è la civiltà occidentale, associata alla dominazione, il suo bersaglio. I suoi pensatori, la sua eredità e i suoi costumi si vedono così demistificati, con la speranza che una volta ripudiato il passato nascerà una nuova utopia. Da questa visione della decostruzione, nascono gli Studies e in seguito, con l’aiuto della piazza e dei social network, il “wokismo”. Il termine è diventato popolare di recente, con il movimento Black lives matter, ma ha un legame con l’immaginario americano e con la tradizione dei “risvegli religiosi” protestanti in voga dalla prima metà del Diciottesimo secolo. Come i calvinisti e gli shakers, i wokes vedono l’umanità consumata da un male che bisogna combattere con ardore. 

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In che misura questa ideologia mette a repentaglio la vita in comune e la nostra concezione della République?

All’opposto dell’universalismo e della concezione repubblicana della cittadinanza (“l’uomo senza etichetta”, secondo l’espressione di Régis Debray), i decostruzionisti essenzializzano ed esaltano le identità. Con loro, l’individuo si vede costantemente ricondotto e ridotto a una parte della sua identità (origine etnica, genere, orientamento sessuale, religione, ecc.). Questa ideologia, di conseguenza, non può che produrre individualismo e particolarismo. Come ricordato da Souâd Ayada nella nostra pubblicazione, lì dove il modello repubblicano si caratterizza anzitutto per l’aspirazione alla vita in comune e l’accettazione del fatto maggioritario, i decostruzionisti, ostili a qualsiasi forma di totalità, preferiscono “ciò che è frammentario, multiplo e decomposto”. La decostruzione si scontra inoltre frontalmente con il principio di laicità, assimilato a un mezzo per emarginare l’islam e i musulmani, e attacca il trittico “liberté, égalité, fraternité”, di cui sottolinea l’inanità. Anche il dibattito pubblico risulta sospetto. La democrazia non è più vista come un teatro dove si confrontano, alla luce della ragione naturale, punti di vista differenti.

E’ vista come una guerra tra oppressori e vittime, progressisti e reazionari, sostenitori della diversità e turiferari del ripiegamento identitario: “La pratica militante della decostruzione instaura un regime di discorsività fatto di sospetto e di intimidazione generalizzati”. La logica comunitarista, l’aggressività e il risentimento aggravano questa corsa al contenzioso. Ogni gruppo minoritario ragiona soltanto in termini di crediti, a detrimento delle nozioni repubblicane di interesse generale e di dovere. L’idea di nazione è sorpassata dal momento in cui, in regime decostruzionista, prevale l’apertura radicale. Solo l’accoglienza incondizionata dell’altro, idealmente non occidentale, permette di intravedere la speranza di una redenzione e di una rigenerazione.

(Traduzione di Mauro Zanon)

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