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Fra sussidi e attività in remoto, abbiamo dimenticato la carnalità del lavoro

Il bioeticista americano O. Carter Snead su cosa significa  essere umani al tempo del Covid-19

Un Foglio Internazionale, ogni lunedì le segnalazioni dalla stampa estera con punti di vista che nessun altro vi farà leggere, a cura di Giulio Meotti


  

Il libro del docente di bioetica O. Carter Snead, “What It Means to Be Human: The Case for the Body in Human Bioethics”, è stato pubblicato lo scorso 13 ottobre, ma non fa alcun riferimento al Covid-19. Tuttavia, scrive Barton Swaim sul Wsj, “l’opera di Snead aiuta a capire la risposta bizzarra e a volte perversa dei ricchi paesi occidentali alla pandemia: la lunga interruzione della vita economica; l’idea che uno schermo possa agevolare i rapporti umani; le restrizioni alle interazioni sociali”. Secondo lui queste politiche derivano “dalle assunzioni contemporanee su – per usare il titolo del libro di Snead – cosa significa essere umani”. Il libro ha a che fare con la bioetica pubblica, ovvero lo sforzo per rendere umane le leggi sulla biotecnologia e la medicina. La premessa di Snead è che l’umano è un essere carnale, e questa idea si pone in contrasto con “l’individualismo espressivo”, la visione dominante al giorno d’oggi che sostiene che l’essere umano sia un soggetto autonomo che non “viene definito dai suoi legami o dalla sua rete di relazioni”. 

Il Covid ha significato la rinuncia alla carnalità ma, si domanda Carter Snead, “il beneficio di non contrarre il virus è valso la pena di rinunciare alla presenza fisica di, diciamo, i vostri figli e nipoti per mesi interi?”. Molti americani, scrive il Wsj, risponderebbero di no ma le istituzioni americane hanno agito come se l’unica risposta concepibile fosse “sì”. “Questo indica che le nostre élite culturali e i nostri legislatori non hanno pensato profondamente, o affatto, a cosa significa essere umani”, aggiunge Snead. 

“Temo che il nostro modo di calcolare il rischio sia cambiato profondamente”, spiega il docente rispondendo alle domande del giornalista. “La nostra tolleranza al rischio è praticamente pari a zero. E questo cosa significa? Il punto della vita umana è semplicemente quello di nascondersi nella propria bolla in modo da non fronteggiare alcun rischio”. 

Secondo Snead la pandemia ha anche rivelato l’attitudine dell’élite verso il lavoro, che non viene concepito come un’attività dignitosa ma solo come un modo per portare a casa lo stipendio.
Il professore sostiene che l’élite, quelli che hanno solamente bisogno “di un laptop e di una buona connessione” per svolgere il proprio lavoro, hanno dimenticato i tanti mestieri che necessitano del rapporto umano, e della presenza fisica. L’idea che i sussidi del governo possano sostituire i benefici del lavoro per lo sviluppo dell’essere umano è la prova di quanto l’élite abbia frainteso questo concetto fondamentale. 

L’intervista affronta un altro simbolo della pandemia: la mascherina. Snead è a favore dell’uso della mascherina anche se sostiene che abbia un effetto alienante e deumanizzante per l’individuo, contribuendo a una spersonalizzazione della vita sociale. Nelle ultime battute dell’intervista, l’autore prevede che l’uso della mascherina potrà alimentare il senso di diffidenza e fastidio che molti americani provano verso l’un l’altro.

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