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Un foglio internazionale

Orwell e la nuova “tirannia dolce”. La grande attualità dello scrittore inglese

Politicamente corretto, islamismo, tecnologia... L’autore di “1984” capì il nostro tempo con settant’anni di anticipo, scrive la Revue des Deux Mondes

Nel 2020, “a Orwell non mancherebbero temi di ispirazione”, constata lo scrittore Julian Barnes nell’intervista rilasciata a Vanessa Guignery per la Revue des Deux Mondes. Il Big Brother di “1984” ha assunto la forma di una coalizione digitale mondiale dal dolce nome di Gafam (Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft), che controlla i nostri dati, i nostri acquisti e persino le nostre fonti di informazione. Ironia della sorte (o crimine perfetto?), siamo i primi ad applaudire a questa “tirannia dolce” che Tocqueville già prevedeva ne “La democrazia in America”: sempre meno libertà, purché ci venga garantito il confort e la sicurezza. Ormai la verità è soltanto alternativa, la neolingua trionfa dappertutto, in particolare nella scrittura inclusiva, illeggibile, che scava una fossa sempre più ampia tra élite e classi popolari.

 

L’impoverimento dell’insegnamento della lingua è stato teorizzato dai pedagoghi di rue de Grenelle (strada in cui ha sede il ministero dell’Istruzione francese, ndr) da quarant’anni a questa parte. “Non vi rendete conto che il vero obiettivo della neolingua è restringere i limiti del pensiero?”, si preoccupava Orwell in “1984” (…). Ai nostri giorni, due più due fa raramente quattro, l’evoluzione e la ragione vengono espulse dall’insegnamento su pressione di islamisti che venerano un ordine religioso totalitario. Culmine dell’indecenza, questa capitolazione è applaudita da una grande fetta dei media e dell’intellighenzia che oggi ci spiega che siamo in parte responsabili degli attentati terroristici islamisti perché non abbiamo saputo accogliere la nuova società intersezionale a laicità aperta, quella che annuncia finalmente l’avvento dei tempi nuovi. Applaudono il “senso della storia” ritrovato, che hanno sempre rivendicato i totalitaristi di ogni tipo, nazisti, comunisti, maoisti… I tempi cambiano, i collaborazionisti rimangono. Orwell, è il minimo che si possa dire, non utilizzava giri di parole per attaccare le élite e la loro “ignoranza crassa sul modo in cui le cose vanno veramente”. “Gli intellettuali sono portati al totalitarismo, molto più delle persone ordinarie”, scriveva nel 1944. Se da una parte si definiva, con arguzia, come un “anarchico tory”, dall’altra Orwell era visceralmente “dalla parte dei dimenticati, degli indigenti e degli essere vulnerabili”. “Un santo laico incrociato con un giustiziere”, come lo descrive Lucien d’Azay. Ecco perché il tradimento della sinistra a cui ha assistito nel 1936 durante la guerra civile spagnola, dove i comunisti voltano le spalle agli anarchici e riscrivono la storia, lo turba profondamente. Trova ributtante il silenzio e la complicità della sinistra inglese. “Se libertà vuol dire veramente qualcosa, significa il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire”, scrive nella sua prefazione a “La fabbrica degli animali” nel 1945. Allo stesso tempo socialista, rivoluzionario, antifascista libertario, anarchico conservatore e patriota inglese, Orwell infastidisce la sinistra e imbarazza la destra. “Fu un uomo solo nel suo secolo, in rottura con tutti i conformismi e in preda a tutte le strumentalizzazioni”, ricorda Sébastien Lepaque.

 

A partire dal 1936 e dal suo reportage sulle condizioni di vita dei minatori del nord dell’Inghilterra, Orwell sviluppa la nozione di common decency, un termine difficilmente traducibile (…). Questa nozione include un certo senso di solidarietà, di generosità e di uguaglianza, una rettitudine morale combinata a un odio dei privilegi. Per Orwell è una disposizione naturale dei più poveri. Una dignità pulita. Non c’è nessuna idealizzazione, tuttavia, nell’opera dell’autore de “La strada di Wigan Pier”. Sa che l’ignominia non è appannaggio dei borghesi. E come nota Bruce Bégout, Orwell dubita alla fine della sua vita (muore nel 1950) “della persistenza di questa decenza ordinaria nelle società contemporanee sottomesse ai media di massa, alla tecnologia disumanizzante”. La common decency è stata spesso discreditata dai progressisti, perché in Orwell si basa su una visione tradizionale della moralità, su un conservatorismo degli stili di vita e delle pratiche sociali: “Andare al pub, pescare, fare lavoretti di casa, osservare i rospi”, queste convenzioni non sono un dettaglio, tengono in piedi il mondo. Attorno alle rotatorie, nel 2018, i “gilet gialli” non aspiravano forse al riconoscimento di un diritto alla decenza? Lavorare e vivere degnamente del proprio lavoro. La sinistra che provocava delle ulcere a Orwell negli anni Trenta e Quaranta per la sua adesione criminale al totalitarismo è la stessa che cede ormai alle sirene dell’estrema sinistra, alle battaglie sulle questioni di società e contro l’“islamofobia”. In entrambi i casi, c’è lo stesso abbandono del popolo, della libertà e del discorso di verità. Orwell amava il giardinaggio, la cucina inglese e la semplicità della lingua. “Detestava la scrittura ‘elaborata’ tanto quanto i ristoranti francesi”.

 

(Traduzione di Mauro Zanon)

 

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