(AP Photo/Paula Bronstein) 

Un foglio internazionale

Qualche lezione dal voto americano

"Da Mounk a Ferguson, per ragionare sulla sconfitta di Trump”, scrive Persuasion

Questo articolo è stato pubblicato su Un Foglio internazionale, l'inserto a cura di Giulio Meotti con le segnalazioni dalla stampa estera in edicola ogni lunedì


 

Il populismo autoritario pone una minaccia seria e duratura alla democrazia liberale, sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo. La vittoria di Joe Biden non ha segnato il definitivo ripudio della variante trumpiana: data la forte capacità di resistenza dei populisti, non lo avrebbe mai potuto fare. Ma questo non è un buon motivo per essere delusi, dato che questa elezione ci ha anche fornito tre lezioni ottimiste. Uno: le istituzioni politiche americane si sono dimostrate piuttosto resilienti. Non dovremmo essere così ingenui da pensare che avrebbero resistito agli attacchi di un populista più disciplinato, però possiamo essere orgogliosi del lavoro fatto da molti per difendere lo stato di diritto e l’equilibrio tra i poteri. Due: l’America non è stata sedotta dal razzismo di Trump. Le sue provocazioni gli sono valse l’adorazione di un pezzo di base repubblicana, ma lo hanno reso impopolare tra la maggior parte degli americani. Tre: il sostegno popolare per i valori filosofici liberali è più ampio di quanto abbiamo creduto negli ultimi tre anni. I flussi di voto e i risultati di alcuni referendum chiave indicano una preferenza ampia, condivisa da molti gruppi etnici, a favore di un’America genuinamente inclusiva che non indulge nelle fantasie dei woke (ovvero gli estremisti progressisti, ndt).

(Yascha Mounk, politologo della Johns Hopkins University)

 

 

Sono una canadese che ha tenuto dei corsi di leadership negli Stati Uniti per quasi 15 anni. Tuttavia, questa è stata la prima elezione in cui sono stata etichettata come una “straniera” e in cui i sostenitori di Donald Trump mi hanno detto di non immischiarmi. L’insicurezza a cui questo presidente ha dato sfogo ha messo in dubbio l’idea che ho sempre avuto dell’America: una nazione con un’impareggiabile fiducia nei propri mezzi. Tutti gli americani che conosco, inclusi i sostenitori di Trump, sono molto accoglienti con i forestieri. Ma i legami che tengono unita la nazione sono sottili. Innanzitutto, ho capito che per coltivare un’unione più perfetta dobbiamo rinunciare a rivendicare la nostra perfezione e concentrarci con umiltà sulla costruzione dell’unione. Io darò il mio contributo insegnando ai giovani americani una nuova abilità che accompagnerà l’orazione – l’ascolto pubblico. Vorrei sentire le vostre idee su come costruire l’unione. Vi ascolterò, statene certi.

(Irshad Manji, educatrice e scrittrice)

 

Nei circoli progressisti è un fatto assodato che la vittoria di Trump nel 2016 è stata causata da una recrudescenza razzista e xenofoba. Questa teoria non era mai riuscita a spiegare il motivo per cui le contee che hanno votato due volte per Obama sono passate a Trump nel 2016; oggi gli riesce ancora più difficile spiegare perché il sostegno per Trump tra gli elettori neri e ispanici è aumentato dal 2016 al 2020. La vera lezione degli ultimi quattro anni è che l’élite progressista si è allontanata sempre di più dalle istanze e dalle sensibilità della working class americana. Questa debolezza dell’élite ha aperto la strada a un populista autoritario che non ha alcuna esperienza di governo, nessun rispetto per la dignità dell’incarico e nessun riguardo per le norme della democrazia liberale. Gli è bastato comunicare in un modo che sembrasse autentico e, soprattutto, che facesse arrabbiare l’élite della costa che viene tanto disprezzata dalla working class americana. L’altra lezione è che il sistema statunitense – costruito per vincolare gli aspiranti dittatori – ha fatto il suo lavoro. Ora che è stata debellata una minaccia a quel sistema, possiamo concentrarci sull’altra minaccia: l’ideologia illiberale dei sedicenti combattenti per la giustizia sociale. I prossimi quattro anni saranno un banco di prova. I democratici americani si trovano di fronte a un bivio: o diventano il partito dell’identity politics oppure saranno l’ultima bandiera del liberalismo classico e dei valori dei Padri fondatori. Dobbiamo sperare, e combattere, per il secondo esito.

(Coleman Hughes, opinionista)

 

Donald Trump non è riuscito a compiere una rimonta in stile 1948 per quattro ragioni. Primo, la sua campagna contro il voto postale si è rivelata controproducente. Secondo, il candidato libertario, Jo Jorgensen, ha preso molti voti preziosi negli stati chiave (i suoi consensi eccedono il vantaggio di Biden su Trump in Arizona, Georgia, Pennsylvania e Wisconsin). Terzo, un gran numero di elettori (ad esempio quelli del Maine) hanno votato tatticamente per i repubblicani alla Camera o al Senato, ma non per Trump. Quarto, pochissimi deputati repubblicani e nessuna testata importante ha appoggiato la teoria del presidente sulla presunta frode elettorale. Nel complesso, quest’elezione è stata tutto meno che un trionfo dei democratici. Questa è la prima volta dal 1884 in cui un candidato democratico ha vinto la presidenza ma non il Senato (anche se questo non è certo finché non si conoscerà l’esito dei ballottaggi in Georgia a gennaio). I democratici hanno anche perso dei seggi alla Camera, il parlamento di uno stato (New Hampshire) e un governatore (Montana). E’ stato un esito sorprendentemente deludente per i democratici considerando l’impopolarità del presidente in carica e il caos causato dalla pandemia quest’anno. Il sospetto è che i democratici non siano riusciti a sfondare perché molti elettori sono stati spaventati dalle idee radicali sposate dall’ala di sinistra del partito (ad esempio il socialismo democratico e il Green New Deal).

(Niall Ferguson, storico e docente all’Università di Stanford)

 

 

 

Negli ultimi giorni ho avuto l’impressione che molti europei temessero l’esito delle elezioni americane come si teme un’operazione al cuore. Tante cose possono andare storte. Molti leader europei hanno perfino dubitato che l’Ue potesse sopravvivere a un secondo mandato di Trump. Quindi la vittoria di Biden è stata accolta come il sorriso del dottore. Il paziente è sopravvissuto. Ma il sollievo generato dal risultato elettorale viene offuscato da tre osservazioni che consigliano prudenza. Primo, Trump è andato via, almeno per un po’. Ma nessuno si illuda che tornerà il mondo pre trumpiano. Secondo, molti di noi hanno capito improvvisamente che la politica europea e americana sono sempre più divergenti. Credo che gli esperti delle democrazie latino-americane si riconoscano più nella trasformazione dei partiti americani piuttosto che di quelli europei. Terzo, se la maggior parte degli europei (ma non tutti) accolgono con favore il ritorno alla normalità dell’America, la domanda che non possiamo ignorare è questa: le prossime elezioni americane saranno ancora una volta un’operazione al cuore?

(Ivan Krastev, politologo e direttore del Centre for Liberal Strategies)

 

Il presidente eletto Biden dovrà affrontare i problemi della pandemia e del conseguente collasso economico. Biden ha anche il compito di nominare al governo delle persone competenti e di buon senso. E’ probabilmente un fatto positivo che il presidente eletto non abbia un programma espansivo come quello di Bernie Sanders o Elizabeth Warren. Per un politico navigato come Biden sarà sufficiente tirarci fuori dal casino in cui troviamo. Ma i democratici non possono dimenticare che oltre 70 milioni di americani hanno votato per Donald Trump. Biden è stato giustamente attento a non etichettare questi elettori come dei deplorabili o razzisti, e a promettere di essere il presidente di tutti. Ma uno dei motivi del successo di Trump è stato il suo apparente interesse verso le preoccupazioni economiche della working class. Biden deve comprendere e rivolgersi a questo malessere. Dovrà dimostrarlo fin dall’inizio attraverso i suoi programmi per gestire il Covid.

(Emily Yoffe, giornalista ed opinionista)

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