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Un foglio internazionale

Le culture non sono tutte uguali

Finkielkraut sul diritto d’asilo, l’immigrazione e le sfide alla coesione della civiltà

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Questo articolo è stato pubblicato su Un Foglio internazionale, l'inserto a cura di Giulio Meotti con le segnalazioni dalla stampa estera in edicola ogni lunedì

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"Non mi piace l’espressione ‘droit-de-l’hommiste’, che trovo pesante e poco conforme al genio della lingua, ma ha un senso” dice Alain Finkielkraut a Causeur. “Stiamo rendendo i diritti dell’uomo un’ideologia, e in nome di questa ideologia, criminalizziamo qualsiasi differenza tra le persone. In questo modo, viene discreditata l’idea stessa di preferenza nazionale, tanto più che l’espressione è utilizzata da una parte dell’estrema destra. Tuttavia, formiamo delle comunità politiche particolari. Non esiste nazione senza preferenza nazionale ed è un diritto di ogni nazione, o dello stato che la rappresenta, scegliere gli stranieri che vuole accogliere. Quando François Héran, professore presso il Collège de France e militante immigrazionista, riconosce che ci sono 400 mila nuovi immigrati ogni anno in Francia, ciò significa che non scegliamo più. Si abusa del diritto d’asilo in nome dei diritti dell’uomo per cancellare le differenze indispensabili alla sopravvivenza di una nazione. Qualunque differenza è ormai considerata discriminatoria. Eppure, fra i diritti che bisogna proteggere, ce n’è uno sancito tanto da Simone Weil quanto da Ortega y Gasset, che è il diritto alla continuità storica. Questo diritto fondamentale è oggi calpestato. Negli anni Trenta, ‘la Francia ai francesi’ era uno slogan xenofobo. Il ‘siamo a casa nostra’ di oggi non ha lo stesso significato. Il sentimento di non sentirsi più a casa propria che prova un numero sempre maggiore di francesi non dovrebbe essere disprezzato. I

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l vero esilio, diceva sostanzialmente Edgar Quinet, non è abitare lontano dal proprio paese, è viverci e non trovare nulla di ciò che lo faceva amare (…). La Francia non si definisce semplicemente attraverso dei valori, considerati universali. Essa non si limita alla République. Pensiamo alla frase spesso citata di Marc Bloch ne ‘La strana disfatta’: ‘Vi sono due categorie di francesi che mai comprenderanno la storia di Francia: quelli che rifiutano di vibrare al ricordo del sacre de Reims (l’incoronazione dei re di Francia al tempo dei franchi avveniva attraverso una solenne cerimonia alla cattedrale di Notre-Dame de Reims, ndr); quelli che leggono senza emozionarsi il racconto della fête de la Fédération’ (la festa che venne celebrata nel Campo di Marte a Parigi il 14 luglio 1790, primo anniversario della presa della Bastiglia, ndr). Scartiamo, se si vuole, il termine identità, che può avere un qualcosa di immobilista e dunque creare molti malintesi: la Francia ha la fortuna di essere una civiltà, che comporta dei costumi, una lingua, un modo di abitare lo spazio pubblico. La diversità è molto antica in Francia, le donne contavano nella vita sociale ben prima di avere il diritto di voto e ciò suscitava lo stupore e l’ammirazione dei viaggiatori stranieri dal Diciottesimo secolo in avanti. E’ una delle nostre caratteristiche non negoziabili che dovremmo difendere, e per questo motivo è nostro compito assimilare i nuovi arrivati.

 

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Tuttavia, come dimostrato in particolare da Gilles Kepel, la Francia si divide. I territori perduti della Repubblica, perduti perché lo stato ha paura di imporvi la sua legge, diventano spesso dei territori conquistati dall’islamismo. E oggi, in nome dell’antirazzismo, alcuni figli di immigrati africani voglio sbattezzare le strade e demolire le statue: si comincia con Colbert, ma si continuerà con Jules Ferry, Luigi XIV e perché no Tocqueville. Nessun autore del patrimonio nazionale sfuggirà alla furia vendicativa di queste persone che non sopportano più la civiltà francese, mentre noi eravamo convinti che fossero venuti a farne parte. E per porre fine all’ideologia dei diritti dell’uomo, dobbiamo sempre ricordarci della distinzione di Max Weber tra l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità. L’etica della responsabilità consiste nel chiedersi quali sono le conseguenze dei nostri atti. Incoraggiare un’immigrazione sempre più numerosa non ha delle conseguenze deleterie e persino mortali per la civiltà francese? Questa minaccia mi sembra più reale e più urgente del pericolo che peserebbe sulle libertà (…). Lo spirito repubblicano non è lo spirito della tabula rasa che animava i rivoluzionari, è quello di Jules Ferry, ‘l’uomo degli attaccamenti e dei legami nel cui animo regna la convinzione di appartenere a qualcosa di più antico di sé’, come scrive magnificamente Mona Ozouf. Ferry si vedeva come un erede e voleva che questa eredità non fosse riservata a una classe: da questa convinzione nasce l’istruzione obbligatoria. Ha superato questa divisione che trovo estremamente nociva e pericolosa.

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E la salvezza passerà, se c’è ancora tempo per farlo, da un rinnovamento della scuola. E’ a scuola che avveniva l’integrazione, è a scuola che si insegnava la cultura generale, ma oggi una certa sinistra sacrifica l’ideale dell’eccellenza per eliminare le diseguaglianze e marginalizza la cultura generale perché, a sua detta, privilegia quelli che hanno già dei privilegi (…). Non c’era solo Pelletan, c’era anche il nazionalista Déroulède che diceva, a proposito dell’Alsazia-Lorena: ‘Ho perso due sorelle e voi mi offrite venti servi’. Jules Ferry invocava il dovere delle ‘razze superiori’ verso le ‘razze inferiori’. Per lui, così come per Léon Blum, che ha utilizzato le stesse parole davanti all’Assemblea nazionale, le diseguaglianze erano temporanee e il progresso, il senso della Storia, consisteva nella loro eliminazione. Ferry ingloba tutte le comunità umane nell’universalità dei Lumi.

 

Si può giudicare paternalistica questa visione o pensare che essa dissimuli, dietro intenzioni generose, la realtà dello sfruttamento degli indigeni e il saccheggio delle materie prime. Ma non si può definirla razzista (…) Il razzismo è la legittimazione e l’essenzializzazione della diseguaglianza tra le razze (…). Mi chiedo se, fra i nuovi immigrati, i critici più virulenti della visione progressista del mondo non vi aderiscano in realtà senza saperlo. Ci dicono che la Francia coloniale è razzista, e che anche la Francia postcoloniale lo è. Ma ecco che questo paese razzista da cima a fondo è la destinazione sognata da tutti i giovani africani e da tutti i giovani maghrebini. Nonostante le discriminazioni di cui vengono avvertiti, vengono in massa lì dove lo sviluppo ha prodotto i suoi frutti. E’ un modo per loro di aderire senza dirlo a questa idea di progresso che rigettano peraltro in nome dell’uguaglianza di tutte le culture. Se tutte le culture fossero per loro uguali, resterebbero a casa propria”.

 

(Traduzione di Mauro Zanon)

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