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il Foglio Arte

L’arte di rappresentare l'arte: oltre la transavanguardia sul palcoscenico  

Francesco Stocchi

Il confronto con Celant, le mostre, la critica. Conversazione su Achille Bonito Oliva

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Francesco Stocchi: Ho visitato la mostra A.B.O. Theatron. L’Arte o la Vita (Castello di Rivoli, fino al 9 gennaio), trovando qualcosa di articolato, un po’ unico nel suo genere, che va oltre l’esposizione delle mostre ma innanzitutto ti chiedo, ricordi una mostra dedicata a un curatore vivente?

Francesco Bonami: No, dedicata a un curatore vivente non la ricordo. C’è stata quella di Szeemann prima di lui ma appunto…

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Francesco Stocchi: Ho visitato la mostra A.B.O. Theatron. L’Arte o la Vita (Castello di Rivoli, fino al 9 gennaio), trovando qualcosa di articolato, un po’ unico nel suo genere, che va oltre l’esposizione delle mostre ma innanzitutto ti chiedo, ricordi una mostra dedicata a un curatore vivente?

Francesco Bonami: No, dedicata a un curatore vivente non la ricordo. C’è stata quella di Szeemann prima di lui ma appunto…

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FS: Tra l’altro sempre ospitata dal Castello di Rivoli, oltre a Berna, Los Angeles…

FB: Però ora, al di là del valore umano-disumano di Szeemann, la sua con Monte Verità era una mostra dedicata a Szeemann come istituzione quasi, non a Szeemann uomo.

FS: Esatto, che lavorava sull’archivio. La persona di Achille Bonito Oliva è unica in questo senso. Già se riesci a conferire al tuo nome lo stato di acronimo l’uomo singolo diventa istituzione a sé. Tipo CR7.

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FB: Se vogliamo vedere il lato non negativo, la direttrice del Castello di Rivoli Carolyn Christov-Bakargiev ha trattato ABO come un artista e quindi agli artisti si fanno anche le mostre viventi. Il lato forse negativo, è la sorprendente soggezione che esiste ancora in Italia verso figure baronali.

FS: Oppure la direttrice ha fatto una mostra sulle mostre perché gran parte dell’economia di A.B.O. Theatron è legata proprio alle sue mostre, alcune delle quali hanno avuto il loro successo raccontando certi cambiamenti in atto. Raro caso di mostre attuali all’epoca, premiate anche dal pubblico, e comunque rilevanti oggi. Penso che la sua posizione è stata più forte di certi artisti che presentava, quindi in questo senso dici baronale. E’ anche vero che è una mostra sulla storia dell’Italia, artistica e non.

FB: Si, è una mostra sulla storia dell’Italia, molto interessante perché è anche sui limiti dell’Italia. Dobbiamo dare atto ad ABO, come avevamo fatto anche con Celant.

FS: In una ricca conversazione in catalogo, ABO e Hans Ulrich Obrist (HUO ecco un altro uomo elevatosi ad acronimo ma con il vento delle consonanti a sfavore) si soffermano su questa differenza. ABO preferiva la rappresentazione, promuoveva arte che rappresentava, mentre l’Arte Povera era un linguaggio che presentava. 

FB: Ma anche la mostra che ha fatto nel garage di Villa Borghese, Contemporanea. C’era della presentazione lì?

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FS: Vero, lì però era in una mostra in 9 sezioni, interdisciplinari, in un luogo-soggetto che invita a presentare. Però la critica Romy Golan sottolineava come in ABO c’era più rappresentazione che presentazione attraverso un impulso allegorico rispetto a Celant, che si è occupato sempre di processi, trasformazioni. Penso sia questa la differenza, la linea che ABO ha adottato era un’altra.

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FB: Celant intuisce il cambiamento politico e sociale degli anni Sessanta, lo cavalca con l’Arte Povera e lo cavalcherà a livello internazionale. ABO intuisce anche lui, the fatigue effect degli anni Settanta, il ritorno all’ordine. La restaurazione che arriva verso il ’78-’79 e inventa la Transavanguardia. Grande intuizione. La inventa un attimino in ritardo rispetto Jean-Christophe Ammann che fa una mostra alla Kunsthalle di Basilea (1980) dove lancia già Clemente. ABO a differenza di Celant è un grande scrittore, ha scritto dei bellissimi libri. Ha scritto all’inizio L’ideologia del traditore (1976), il libro su Duchamp (Vita di Marcel Duchamp, del 1976) e si dedica molto più alla scrittura. Per questo dico che forse la direttrice lo vede di più come autore.

FS: Infatti, Il territorio magico (1971). Achille Bonito Oliva viene dalla poesia e ha poi identificato in Emilio Villa il suo mentore. Tu hai avuto modo di conoscerlo Villa?

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FB: No, non ho mai avuto modo. 

FS: Neanch’io, purtroppo. Splendido, raro esempio di commistione tra poesia e critica artistica. ABO viene allora dalla poesia per portare poi questo verbo attraverso la materia. All’inizio degli anni Sessanta, i grandi cambiamenti avvenivano attraverso l’immagine. Ed è questo che gli consente di avere una scrittura che varia a seconda delle necessità, anche molto coinvolgente. La sua scrittura è un po’ come lui stesso parla.

FB: E’ emotiva. In questo senso va il titolo della mostra, il fatto teatrale. Lui è un personaggio della sua pièce teatrale/curatoriale/critica.

FS: ABO è quindi autore di mostre, ed è soggetto e oggetto in questo caso.

FB: Si lo è, è un attore, infatti lui cita sempre Totò. Per motivo o per addiction o per desiderio o per talento si identifica nel personaggio che si è inventato, che è ABO. Ma in questo identificarsi secondo me il limite sono i suoi orizzonti che confina sul teatro, sulla battuta. Le confina al palcoscenico, essendo una rappresentazione teatrale. Ecco, secondo me quello in cui lui non riesce, ma non è un’accusa, oppure non vuole, è rendere il suo teatro universale. Resta italiano, locale, italico. E questa è la differenza con gli altri, Szeemann per esempio, che pur mantenendo la loro identità hanno un orizzonte più alto ma non diventano, particolarmente Celant, non diventano un personaggio teatrale.

FS: Può sembrare una sciocchezza, può essere dovuto anche al fatto che non conoscesse l’inglese?

FB: Questa è una cosa che diceva anche Gian Enzo Sperone. Perché molti artisti dell’Arte Povera non hanno avuto un’importanza come Bruce Nauman? Perché non parlavano inglese e quello sembra assurdo dirlo, perché non è soltanto la questione dell’inglese, perché parlare inglese non vuol dire nulla, è più che altro sintetizzare il proprio pensiero per un linguaggio internazionale. Credo che quello sia stato il grosso handicap di molti artisti, non dico solo italiani, ma anche spagnoli, russi. Artisti che per ragioni storiche, perché provenivano da grandi potenze politiche e geografiche, non hanno avuto la necessità di conoscere la lingua inglese. L’Unione sovietica impone il russo alle proprie colonie, la Spagna impone lo spagnolo alle proprie colonie, l’Italia alle proprie colonie e quindi patisce di più questo fatto. Non è indifferente che questi paesi, rispetto ad altri che avevano lingue anglosassoni, comunicavano in mondi in trasformazione.

FS: Ma secondo te, parlando anche di Celant quale dei due è riuscito più ad affrancarsi dal movimento che ha lanciato e patrocinato? E quale è quindi riuscito a rimanere più al passo con i tempi?

FB: Sai è difficile dire chi si sia affrancato o quanto il pubblico non vuole affrancarlo. Celant potrebbe essere visto come risucchiato dal successo dell’Arte Povera, non ha voluto ma non è neanche riuscito. ABO è invece riuscito ad affrancarsi dalla Transavanguardia grazie allo sgretolamento di questo movimento che è durato direi 10 anni, diciamo fino al 1988. E l’Arte Povera tutt’oggi continua ad avere una sua influenza che la Transavanguardia non ha più avuto.

FS: Ti dicevo questo in rilevanza anche al contesto, perché nell’introduzione al catalogo la direttrice parla di come lui sia stato capace di scardinare un contesto degli anni 70 di arte concettuale considerato da ABO un modo puritano di vedere l’arte. Secondo te questo puritanesimo è tornato dopo negli anni 90 e ci viviamo ancora?

FB: E’ ritornato consentendo le incursioni della pittura. 

FS: Prima era puritano nei termini in cui la pittura non era accetta. 

FB: Invece c’è stato un ritorno. Si possono usare tutti i termini, certo c’era stato uno scardinamento mondiale, che accedeva internazionalmente, come aveva fatto Celant. C’è la grande intuizione di ABO di mettere dentro una sua idea critico-letteraria quello che stava succedendo.

FS: Mi interessa e ci tocca da vicino perché tutta l’arte che si trova oggi alle fiere o in mostre in giro è di matrice concettuale mentre prima si trattava di Avanguardia. Mi dispiace perché noi sappiamo e dobbiamo discernere ma il pubblico che visita i musei vede ora un chiodo, un documento, una pianta, un libro e pensa che l’arte sia questa qui e questa cosa non mi va bene. ABO non è mai caduto in questa cosa qua. 

FB: Il punto è che il mondo è diventato manicheo. Prima c’erano i buoni e i cattivi, adesso convivono. C’è un enorme sacca concettuale dovuta alla Biennale e ad altre situazioni del sistema dell’arte e poi c’è il mercato. Però sono mondi che si muovono parallelamente. Io ritengo che l’arte concettuale che si muove all’interno di un mondo così, quello del mercato prêt à acheter, è semplicemente un’arte elitaria, che si parla allo specchio ma con la veste dei buoni sentimenti.

FS: Assolutamente. Per un mondo molto ristretto. E’ un elemento di ricerca come la scienza. E quindi possiamo dire che ABO è un curatore che non ha cavalcato questo elitarismo? E’ più popolare nella versione migliore del termine.

FB: Assolutamente. ABO è un curatore popolare, ha giocato la sua grande semifinale del Mondiale nel 1993, quando io avevo fatto una piccola sezione all’interno di Aperto e me lo ricordo molto bene. Fa una grandissima Biennale pensando che nel 1995 gli sarebbe stata riconfermata la Biennale e lì, mi sembra sarebbe stato il centenario della Biennale, e lui avrebbe vinto la finale. E io sono convito che se lui avesse potuto fare la Biennale del 1995 sarebbe potuto diventare un grande curatore mondiale.

FS: E invece?

FB: E invece qualcosa va storto, la fa Jean Clair e in effetti cancella del tutto Aperto, c’è proprio un ritorno all’ordine fenomenale, porta alle estreme conseguenze quello che ABO aveva cavalcato. E io credo che dal 1995 avviene il declino internazionale di Achille Bonito Oliva. E lui però rimane, forse lo capisce e si accontenta, una grande personalità all’interno dei propri confini.

FS: C’è qualcosa della tua Biennale del 2003 che si ritrova in Aperto? Io penso proprio di sì.

FB: Sì ho imparato da quella Biennale lì l’aspetto polifonico della Biennale. Poi sono tutti miei padri e mie madri. Secondo Helena Kontova e Politi, ABO non mi voleva far parte del team curatoriale mentre Bonito Oliva mi diceva che si ricordava. Non credo lui avesse nessuna voglia particolare, io non ero veramente nessuno. Così anche come Celant o Szeemann che non hanno mai lasciato spazio a Obrist. Credo che Bonito Oliva come Celant abbiano visto come fumo negli occhi la crescita di altri curatori, particolarmente maschi. Poi devo dire che mi ricordo ancora quando andai a lavorare a Chicago, stupido aneddoto ma interessante, che con Bonito Oliva aveva avuto molti dissapori dopo la Biennale del 1993. Insomma lui mi vide, non so se era alla Sandretto o quando stavo a Chicago, insomma in un’altra posizione e per farmi un complimento disse: “Sicuramente non farai una Biennale ma farai Documenta”, che non ho fatto e non sarei nemmeno in grado di farla perché in questo sono più bonitoliviano che celantiano come metodo. Sono più affine a curare come teatro e spettacolo che come metodo e ricerca. Infatti, quando mi diedero la Biennale non fu molto contento.

FS: Possiamo dire che la sua Biennale è stata la prima che ha dato una voce polifonica in assoluto? Guarda adesso la curatela come sta diventando di gruppo. Stiamo ora per aprire la Biennale di San Paolo che è proprio strutturata sull’idea di scambio diafonico. Soprattutto per uno come ABO che viene visto come un barone, anche a livello di metodo avrebbe potuto benissimo seguirla da solo come hanno fatto altri dopo di lui.

FB: La sua Biennale è stata eccezionale per metodo, per quantità, per lo spazio che diede d’altronde ad altri. Fu una bellissima Biennale. La differenza è forse che gli venne la sindrome di Franco Bitossi, che era un ciclista toscano che nel 1972 a Spa in Belgio si ritrova sulla dirittura finale del traguardo in testa da solo con un alto margine di vantaggio, è leggermente in salita sta per arrivare al traguardo, a un certo punto sbaglia il rapporto per questa piccola salita e si vede questa nuvola che gli si avvicina. Per una frazione di secondo lo batte Marino Basso e lui arriva secondo. Non si è più ripreso Bitossi. Io credo che nel ’93 ABO pensa di aver vinto il Mondiale avendo fatto una Biennale da finale.

FS: L’idea di questa mostra a Rivoli, afferma la direttrice, è nata in occasione della riedizione nel 2019 dell’incontro situazionista ad Alba. Dove si afferma che il situazionismo che porterà al Fluxus, che comunque è stato legato ad ABO, influenza tutta l’arte successiva. ABO è totalmente situazionista come atteggiamento verso il mondo anche per come rappresenta arte e vita.

FB: Lui è situazionista nella sua capacità e devo dire in senso positivo di autocelebrazione, mentre altri curatori vogliono essere celebrati ABO fa di necessità virtù e bisogna dargli atto che ha mantenuto alto questo profilo esclusivamente per merito proprio.

FS: Non so, forse ognuno ha il suo, ma l’ABO che personalmente preferisco è quello fino al 1980, prima della sua grande intuizione, prima della Transavanguardia.

FB: Nel momento del ritorno all’ordine esce fuori in ABO un edonismo, esce fuori l’ABO meno interessante. Anche se io avendo iniziato a fare l’artista per quel poco che l’ho fatto nel 1982 ammetto che la Transavanguardia è stata molto influente nella mia ricerca perché dava questo aspetto eroico all’arte che aveva perduto negli anni Settanta.

FS: Offriva una nuova possibilità di rappresentare, di andare oltre il necessario. Una sublimazione.

FB: Un godimento.

FS: Ma continuando con questo insulso parallelo non trovi che per Celant il suo successo è legato alla perseveranza e al lavoro, è un po’ un Cristiano Ronaldo mentre ABO è un po’ Messi, un talento naturale?

FB: Forse possiamo anche fare un paragone religioso. Celant è più calvinista volendo anche da un punto di vista estetico. Uno che si veste tutto di nero, ABO si veste elegante, da sartoria napoletana. E’ più guapo, più maschera. Ma ABO fa sempre questo gioco in cui dice che lui non è un curatore ma un guaritore che non era un critico. Cerca insomma di tirarsi fuori dai paragoni. 

FS: Si però è anche una figura che entra nello spettacolo, esce dai confini dell’arte stessa.

FB: Giustamente si è costruito il suo teatro, si è creato il suo palcoscenico che è Roma con delle appendici italiane. Celant non è un teatro, non a caso venne definito il Sovrintendente di Fondazione Prada. Credo che forse ci sia, se vogliamo passare dallo sport al teatro, questa differenza che Celant è un direttore d’orchestra che fa eseguire e ABO è un attore sul palcoscenico.

FS: Questo è verissimo. Nel senso che adesso i curatori si sentono anche attori, alcuni provengono da altri campi, nel senso che è diventato una deriva feconda della scienza curatoriale.

FB: Beh, sai noi curatori a un certo punto siamo dei maggiordomi, facilitatori, mediatori. Quando i rapporti con ABO non erano buoni, questo fa vedere anche perché l’Italia nell’arte forse è molto indietro, qualcuno gli chiese un commento su di me e lui mi definì il filippino dell’arte. 

FS: Comunque la mostra è ricca e organizzata, presenta insieme, ma su due distinti livelli semantici, documentazione e opere d’arte. La forza della mostra è che aiuta a distillare. Capisci subito di cosa si è trattato. E questo ABO Theatron lo fa per 17 mostre partendo dalla sua primissima a Napoli Mambor Pascali fino all’ultima di Gino De Dominicis per il MAXXI. La prima era del ’66 ed era nella libreria-galleria Guida. E la forza è che quando entri c’è il senso originario e sintetizzato di ciò che ogni mostra voleva esprimere. C’è un po’ di feticismo così ma è normale con la presenza di documenti. Grande lavoro di ricerca e mediazione lo ha fatto Andrea Viliani. Un’altra cosa positiva è che non c’è uno sbilanciamento tra ABO e Transavanguardia ma va ben oltre, anche se su questa linea forse io avrei inserito anche molte delle sue mostre fatte non per motivi intellettuali, diciamo così. Lì sono uscite delle intuizioni straordinarie. Dal 1995 in poi lui accetta molto per opporsi a un rigore intellettuale. Poi c’è una bellissima parte su ABO e la televisione e il rapporto con i media. Vedi una cacofonia di schermi dove puoi capire la sua importanza e peso nella cultura di massa nel corso degli anni. Quindi forse avrei messo qualcosa che non era solamente da podio e da prima pagina, perché il suo forte era anche il localismo, l’andare a presentare una mostra anche in luoghi improbabili, cosa che altri anche con meno esperienza non avrebbero mai fatto.

FB: Non so se a questa domanda si può rispondere, ma tu che sei di Roma senti il peso ABOlitiano? Senti il freno nella critica di ABO? Sei frenato dal fatto di essere cresciuto a Roma con questa presenza in fondo ingombrante?

FS: L’ho percepita e per non subirla, ma per cercare di non diventare un adepto, sono partito da Roma e a questo punto dall’Italia. L’ho fatto per rispetto. Era infatti l’unico modo per salvarsi. Ovviamente la sua era una onnipresenza che andava dallo storico al contemporaneo e al locale. Non facile anche perché non sono andato via con un lavoro e questa reazione mi ha dato una forza e un’energia inaspettata. Chiaro che l’uscire da Roma è stato necessario. Anche perché un contraddittorio con ABO si trasforma in farsa o in dramma! [ride] 

FB: Infatti loro rappresentano quelle figure da politica italiana o televisione, quelle figure dove o c’è la litigata furibonda o c’è l’ignorare tutto quello che si pone davanti alla loro figura. Questo è forse il lato più deleterio di tali figure di curatori. Forse l’Italia in tutti i campi soffre di paternalismo a volte precoce o senile. Il potere consente di trattare tutti in modo paternalistico. Infatti, tutti si sentono dei grandi padri. 

FS: Coloro che sono arrivati ai primi riconoscimenti negli anni Sessanta in nome del rinnovamento, sono stati poi i primi a non voler accettare cambiamenti.

FB: Il cambiamento vero è quello che consente un altro cambiamento. Questo è forse il grande deficit dell’Italia e se uno non accetta questo cambiamento diventi il boss, fai paura ma perdi la stima.

FS: Ma qui si parla di socio-politica, ABO si è creato il suo teatro per esulare anche da questo. Lì, su quel palcoscenico tutto è possibile e lui si muove benissimo.

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