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C’è un brutto buio in fondo alle gallerie

La rivoluzione Covid ha colpito più il mercato che i musei

Francesco Stocchi

La chiusura di Metro Pictures a New York, uno dei più importanti motori dell’arte contemporanea, segna un cambio d’epoca

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Sono passati dodici mesi dall’inizio dell’emergenza pandemica da Covid-19. C’è chi dice che siamo a metà strada, i virus hanno durata media di due anni e gli esseri umani possono solo arginare i danni ma non eliminare del tutto l’imponderabile. Altri sono convinti che queste misure pasquali saranno le ultime, che la prossima estate sarà quella del ritorno obbligato alla spensieratezza, sovrapponendo speranze collettive a certezze scientifiche. C’è invece chi trova rifugio nella dissoluzione della ragione per sostituirla con il rancore, chiude gli occhi e si immagina di vivere costretto in un complotto mondiale e che solo ignorando il dramma quotidiano attorno a sé si può reagire (in nome della libertà!) a questa combutta planetaria. L’assenza di certezze, di previsioni e di misure condivise ci investe del ruolo di pionieri di un terreno sconosciuto e la prima volta, generalmente, destabilizza. Sono destabilizzate le persone come le istituzioni che queste persone gestiscono. 

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Sono passati dodici mesi dall’inizio dell’emergenza pandemica da Covid-19. C’è chi dice che siamo a metà strada, i virus hanno durata media di due anni e gli esseri umani possono solo arginare i danni ma non eliminare del tutto l’imponderabile. Altri sono convinti che queste misure pasquali saranno le ultime, che la prossima estate sarà quella del ritorno obbligato alla spensieratezza, sovrapponendo speranze collettive a certezze scientifiche. C’è invece chi trova rifugio nella dissoluzione della ragione per sostituirla con il rancore, chiude gli occhi e si immagina di vivere costretto in un complotto mondiale e che solo ignorando il dramma quotidiano attorno a sé si può reagire (in nome della libertà!) a questa combutta planetaria. L’assenza di certezze, di previsioni e di misure condivise ci investe del ruolo di pionieri di un terreno sconosciuto e la prima volta, generalmente, destabilizza. Sono destabilizzate le persone come le istituzioni che queste persone gestiscono. 

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In questi dodici mesi musei e istituzioni pubbliche hanno riscontrato difficoltà fino a poco fa considerate paradossali. Se la missione sempre più urgente era quella di includere più pubblico possibile, aumentare i numeri e diversificare le presenze, improvvisamente il problema è diventato come contenere, regolamentare quello stesso pubblico che si è cercato di conquistare a caro prezzo (vedi rischio di eccessiva semplificazione dei contenuti). Se le sale vuote, le visite in solitario accompagnate solo dai propri passi, erano motivo di desolazione, dimostrazione del disinteresse del pubblico nei confronti della cultura, ora sono un’occasione da cogliere per godere di capolavori in solitudine, liberi dal livore della massa. Cosa fare delle politiche fallimentari del turismo culturale? Intanto, ministero della Cultura e quello del Turismo sono ora distinti, un caso? Proprio l’esperienza pioneristica, non potendosi rifare a modelli pregressi, genera soluzioni diverse a problemi simili. Mai dalla Seconda guerra mondiale i musei erano rimasti forzatamente chiusi tanto a lungo.

 

Certi hanno fatto di necessità virtù e ristrutturato, reimmaginato i propri spazi espositivi, altri si sono rinchiusi nel loro cloud digitale, altri invece hanno cercato di uscire dai propri spazi diventati improvvisamente gabbie. Tutti, indistintamente, stanno soffrendo di problemi di gestione (di programmi e del proprio staff), smarriti nell’impossibilità di trovare certezze per pianificare il futuro. Ma non solo i musei, anche le gallerie riscontrano grossi problemi. Organizzazioni più piccole quindi apparentemente più facili da gestire, la cui identità privata consente di reagire rapidamente agli imprevisti e la maggiore prossimità nei confronti degli artisti permette di continuare a lavorare intorno al processo produttivo. Ma come si può facilmente immaginare, le difficoltà sono diffuse e significative per un settore che vive di vendite e che (almeno in Italia, almeno per ora) non si vede riconosciuto nessun tipo di sostegno.

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Lo scorso dicembre, da queste pagine abbiamo dato voce a 30 galleristi italiani per conoscere meglio la loro condizione, capire se i problemi erano gli stessi per tutti e se questo fermo avrebbe portato a una metamorfosi oppure al ritorno dell’uguale. Se fino al 2019 il problema erano le troppe fiere ed era insostenibile per molte gallerie tenere un piede in un mercato jet-set capriccioso, ora “local is the new global” come amano annunciare in molti (anche chi gestisce 12 gallerie in tre continenti si trasforma in local). Ora il problema è improvvisamente inverso, la lentezza è diventata una virtù, gli scambi personali sono una rarità e il digitale è più una minaccia disgregativa che un’opportunità per chi deve incontrarsi, persuadere, scambiare e stimolare.

 


Le vendite online non stanno andando come sembrerebbe, non perché si voglia dissimulare l’attuale situazione di stallo (condizione peggiore perché un mercato funzioni) ma perché annunci di singole vendite milionarie attraverso le “viewing rooms” fanno più rumore che informazione. Le fiere d’arte hanno invece iniziato a presentare le loro OVR in modo permanente, non più solamente in sostituzione della fiera stessa, mentre le aste online, modello già sviluppatosi da qualche anno, stanno gradualmente diventando un’abitudine. Una concorrenza non da poco.

 

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Le mostre non ci sono più e le gallerie non possono contare su quella continuità di offerta e di rapporto con il pubblico che nessun altro poteva offrire. Soprattutto, ora che è venuta a mancare quella magia aggregativa che dava forma, lustro e ambizione al mondo dell’arte, tribù apolide in movimento continuo, i galleristi sembrano essere coloro i quali sentono maggiormente questa assenza. Ultimo fattore che mette a rischio il modello di galleria così come lo conosciamo (chiamiamolo modello Castelli), è l’apertura delle agenzie alle arti visive che iniziano a considerare gli artisti alla stregua di divi hollywoodiani o di pop-star.

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Artisti scelgono di allontanarsi dalle loro gallerie per lavorare con agenzie, sempre deputate a vendere i loro lavori, ma più concentrate a partnership con società high-tech o marchi di moda che alla realizzazione di mostre, considerate forse inutili perché prive di funzione. A differenza delle gallerie d’arte, queste società di consulenza preferiscono il soggetto al progetto, la persona alla loro produzione, in perfetta sincronia con l’èra della “vanità impegnata” che stiamo vivendo. Boutique che trasformano i loro spazi in “opera d’arte” confondendo il significato stesso di arte con esperienza artistica, tradendone il linguaggio e il significato stesso dell’arte.   

 


Quindi migliaia di gallerie in difficoltà ma con problemi che incidono in modo dissimile. Se nel settore pubblico a soffrire sono prevalentemente i grandi musei, quelli con più personale, maggiori costi di gestione e le cui vendite di biglietti incidono in modo significativo sui bilanci annuali, per le gallerie il discorso è più complesso. Quelle più piccole, organizzate intorno a una gestione economica individuale, sembrano per fortuna sopravvivere malgrado le difficoltà. Le grandi gallerie invece, organizzate come vere e proprie multinazionali sembrano “too big to fail”, capaci non solo di assorbire grandi perdite ma di approfittare del momento di crisi. La fascia medio-alta composta da gallerie ambiziose, anche storiche, con staff dalle 7 persone in su, capaci di affrontare centinaia di migliaia di costi di produzione, presentarsi a numerose fiere in vari continenti e al tempo stesso di mantenere un programma di 10 mostre all’anno, stanno trovando difficoltà nell’adattarsi ai vari cambiamenti in atto. Dopo 40 anni, la galleria newyorkese Metro Pictures ha annunciato che alla fine del 2021 chiuderà la sua attività. È una notizia sintomatica, perché poche gallerie come Metro Pictures sono associate in modo così indissolubile ad un’epoca, quella dei primi anni ’80, gli anni dell’appropriazione dell’immagine in un mondo saturo dai media (si pensava), l’epoca della messa in discussione del concetto di originale che ha dato forma al post-modernismo.

 

La “Picture Generation” è storia, e la galleria che più l’ha rappresentata non si sente al passo con i tempi, o almeno con l’accelerazione repentina dei cambiamenti in atto. L’annuncio ha colto molti di sorpresa, uno di quegli annunci che celebrano uno slittamento in avanti del nostro tempo, diffuso attraverso un email che descriveva “un anno impegnativo di programmazione guidata dalla pandemia e l’arrivo anticipato di un mondo dell’arte molto diverso”. I fondatori avevano discusso la chiusura della galleria l’anno scorso quando è iniziata la pandemia, ma avevano deciso di ritardare la loro decisione a causa dell’instabile situazione economica. Avevano anche considerato la fusione con una galleria più giovane prima di abbandonare definitivamente il piano. Negli stessi giorni, si è diffusa la notizia che Cindy Sherman, artista di punta della Metro Pictures con cui lavora sin dagli inizi, ha siglato un accordo in esclusiva con la galleria multinazionale Hauser&Wirth. Forse il colpo di grazia per Metro Pictures? Semplicistico liquidare la notizia come un tradimento, forse solo un ulteriore esempio di tempi che cambiano rapidamente. 


Le gallerie vengono prima dei musei. L’arte del Novecento, le sue avanguardie e certi, fondamentali movimenti artistici, sono stati introdotti senza considerati grazie all’apporto sperimentale e al pionieristico stimolo intellettuale offerto dalle gallerie. Seguiremo da vicino i cambiamenti in atto dando voce, spazio e possibilità di confronto a questi protagonisti in questo interessante, vorticoso periodo transitorio. 
 

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