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il foglio arte

Per ripartire serve un'arte liberata

Lasciatela scappare dalla rete in cui è costretta

Francesco Stocchi

Dalla Grande depressione al terremoto del 1968 a Gibellina: incentivi pubblici e progetti per un nuovo inizio

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Cosa cerca il pubblico in un’opera d’arte? Erudizione? Intrattenimento? Evasione? Le opere possono essere utili strumenti per capire meglio la società, manifestazioni di un senso comune che riescono a rendere visibile l’invisibile. Oppure l’arte offre un’occasione di uscire per un momento dagli ordini sociali, facendoci evadere attraverso i sensi; in questo caso si potrebbe parlare di arte “inutile”? Quello dell’applicazione sociale dell’arte è un quesito in costante evoluzione, specialmente in tempi recenti, ma i cui principi base dovrebbero rimanere invariati. Ce ne siamo occupati recentemente (“l’arte non è l’ostetrica della società”) e se le fondamenta non sono chiare, nulla di solido e di significante può essere costruito. Se non si ha ben chiaro che ruolo possano assumere l’arte e gli artisti nella società, ciò che resta è un sentimento di confusione in sospeso tra la convinzione pigramente ereditata che l’arte deve essere comunque presente a un certo punto ma non sappiamo bene perché e un generale senso di inutilità

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Cosa cerca il pubblico in un’opera d’arte? Erudizione? Intrattenimento? Evasione? Le opere possono essere utili strumenti per capire meglio la società, manifestazioni di un senso comune che riescono a rendere visibile l’invisibile. Oppure l’arte offre un’occasione di uscire per un momento dagli ordini sociali, facendoci evadere attraverso i sensi; in questo caso si potrebbe parlare di arte “inutile”? Quello dell’applicazione sociale dell’arte è un quesito in costante evoluzione, specialmente in tempi recenti, ma i cui principi base dovrebbero rimanere invariati. Ce ne siamo occupati recentemente (“l’arte non è l’ostetrica della società”) e se le fondamenta non sono chiare, nulla di solido e di significante può essere costruito. Se non si ha ben chiaro che ruolo possano assumere l’arte e gli artisti nella società, ciò che resta è un sentimento di confusione in sospeso tra la convinzione pigramente ereditata che l’arte deve essere comunque presente a un certo punto ma non sappiamo bene perché e un generale senso di inutilità

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Gli indotti legati al turismo culturale sono solo una conseguenza dell’effetto del patrimonio culturale ma non il motivo del bisogno della sua rinnovata esistenza. I musei, in crisi di identità da almeno un decennio stanno vivendo una rivoluzione dove non si fa altro che parlare della missione del museo, del museo del futuro, se il museo debba essere un luogo di studio o di svago, un luogo di riflessione o di azione. Jean Dubuffet era chiaro su questo, sostenendo che “l’arte dovrebbe sempre farti un po’ ridere e un po’ spaventarti. Mai annoiarti”. Anche per Aristotele la funzione primaria dell’arte era la catarsi, un rito di purificazione inteso a mondare il corpo e l’anima da ogni contaminazione. Le cose cambiano sotto l’attuale pressione di un sentimento utilitaristico dettato dalla banalità dei numeri che invade ogni aspetto della nostra vita. In una recente indagine del New York Times, ci si chiede a che cosa sono dediti i musei, a costruire mostre o a condurre indagini? La (ahimè non retorica) domanda si riferisce alla cancellazione di una mostra prevista presso il museo d’arte del Miami Dade College, di Forensic Architecture, un collettivo, anzi una “research agency”, di Londra che si batte contro ingiustizie sociali attraverso lo strumento dell’indagine tecnologica, fatta di rendering, proiezioni 3D e calcoli matematici.

   

La mostra cancellata intendeva esaminare il reale trattamento di bambini migranti accolti in una struttura federale vicina al museo. Viviamo in un periodo simile, costretti tra la ricerca di evasione da nuvole digitali che tutto controllano e tutto indicizzano e la critica di un mai sufficiente impegno delle arti, della sua mancanza di dedizione sociale e dialettica politica.

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Abbiamo potuto constatare in questi ultimi 10 mesi come il bisogno di evadere per molti sia divenuto necessità, in contrapposizione con una realtà economica che dire precaria è eufemistico. La crisi economica affligge tutte le categorie ma (per chi ha voluto vederlo) la categoria degli artisti rappresenta un caso a sé. Gli artisti non sono certo lavoratori fissi ma neanche precari, c’è chi non li considera neanche lavoratori. La loro identità professionale fluida, non bene identificabile, in bilico tra il sospettoso e il meravigliato a seconda di chi guarda, è la diretta conseguenza della domanda di cui sopra, “cosa cerca il pubblico in un opera d’arte?”. 

    
Il fotografo francese Robert Doisneau, esponente della cosiddetta Fotografia umanista, si chiedeva entusiasta: “Dimmi quale altra professione mi avrebbe permesso di entrare nella gabbia dei leoni allo zoo di Vincennes e nello studio di Picasso…”. E’ vero che la duttilità e l’ampiezza di applicazioni è proporzionale alla fluidità della figura dell’artista, verità difficile da accettare in un periodo di nomenclatura dell’identità personale: dimmi (precisamente) che (realmente) fai, e ti dirò chi sei. Ora che scarseggiano i mezzi per soddisfare i propri bisogni e manca l’occasione di catarsi aristotelica, ridere, piangere ed entusiasmarsi diventano strumenti di salute psichica e sociale. Ci sarebbe però modo di combinare questi due aspetti, è successo in passato a seguito di grandi crisi, anche non necessariamente estese e intense come quella che stiamo vivendo. C’è un modo di aiutarsi, al tempo stesso stimolando e preservando le specifiche capacità e il rispetto di sé. Un modo di coniugare l’invito all’evasione con l’impegno sociale, e la categoria degli artisti è tra le poche a poter adempiere a ciò, come le esperienze passate ci hanno mostrato.

   

Il Federal Art Project è stato un progetto dedicato alle arti visive sviluppatosi nell’ambito del New Deal che riconobbe la loro importanza in una società smembrata dalla Grande Depressione. Fu creato nel 1935 (si concluse nel 1943) con la produzione di circa 200.000 opere, principalmente sculture, poster, murales, dipinti. Alcune opere sono ancora tra le più significative dell’arte pubblica statunitense. Gli obiettivi principali del FAP furono quelli di impiegare artisti inattivi e sostenere la creazione di opere d’arte per edifici pubblici quali scuole, ospedali, uffici postali, prigioni, biblioteche ma anche la documentazione della vita locale e l’organizzazione di teatri locali o di archivi. Il lavoro si divideva in produzione artistica, educazione artistica e ricerca artistica. Sebbene i critici definissero la WPA un’estensione del sussidio, lo scopo dichiarato del programma era quello di fornire un lavoro utile alle vittime della Grande Depressione, preservando le loro capacità e rispetto di sé (l’economia a sua volta sarebbe stimolata dall’aumento del potere d’acquisto dei neoassunti). In otto anni, il FAP impiegò artisti con una vasta gamma di esperienze e stili, sponsorizzò un corpo d’arte vario e sperimentale e ebbe una notevole influenza sui successivi movimenti artistici del paese. Il successo fu principalmente legato al direttore nazionale del programma, Holger Cahill, ex curatore di musei ed esperto di arte popolare americana, che identificò tutto il potenziale di sviluppo culturale al posto di un fallimentare e oneroso programma nato in soccorso agli artisti. Il progetto sviluppò un interesse del pubblico in regioni in cui l’arte e gli artisti erano sconosciuti. Cahill affermò che “l’organizzazione del progetto si è basata sul principio che non è il genio solitario ma un movimento generale sano che mantiene l’arte come parte vitale e funzionante di qualsiasi schema culturale. L’arte non è una questione di capolavori rari e occasionali”.

  
Non penso che dal dopoguerra ci sia bisogno di catarsi tanto quanto oggi, in seguito al dramma sanitario ed economico, ma anche sociale che stiamo vivendo. Il presidente francese Emmanuel Macron, la cancelliera tedesca Angela Merkel hanno identificato nei loro discorsi di Capodanno la cultura quale settore in pericolo, sia per la necessità che rappresenta sia per l’indotto economico che può generare.

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In una scala minore, a seguito di una tragedia diversa, anche l’Italia ha affidato in parte alle arti il suo progetto di ricostruzione. Siamo a Gibellina, in Sicilia, all’indomani del terremoto del 1968. Per la ricostruzione di Gibellina nuova, l’ex sindaco Ludovico Corrao ebbe l’illuminata idea di “umanizzare” il territorio, chiamando artisti di fama mondiale quali Alberto Burri e Pietro Consagra. All’appello risposero anche Paladino, Schifano, Pomodoro, Angeli, Sciascia. La città divenne un immenso laboratorio di sperimentazione e pianificazione artistica, in cui artisti e opere di rinnovarono lo spazio urbano secondo una prospettiva innovativa. Il paese vive oggi una distruzione diversa, più subdola, i cui effetti rischiano di protrarsi nel tempo.

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Un nuovo FAP, un regime di lavoro di emergenza, la cui motivazione è lo stimolo economico e l’impiego degli artisti per il bene sociale è necessario. Un programma a basso costo che non preveda ingenti investimenti. Gli artisti non dovrebbero essere tenuti a dimostrare il loro “impatto sociale”, ma essere intesi come lavoratori essenziali. La cultura percepita come un perno della ripresa economica. Un programma del genere potrebbe essere particolarmente prezioso nelle aree dimenticate del paese, nelle regioni economicamente in pericolo: incorporare artisti a livello nazionale e incaricarli di concentrarsi sulle popolazioni e contesti locali, dovrebbe animare qualsiasi opera culturale del prossimo governo.

   
Impegni assegnati sulla base delle necessità e del merito, sotto la tutela di commissioni allargate che certifichino le opere e indichino i luoghi su cui intervenire. Interventi possibili sarebbero nelle stazioni metropolitane, come è stato fatto con grande successo a Napoli negli anni 90, ma anche su tutte quelle facciate degradate che si trovano nelle grandi periferie delle nostre città. Muri ciechi che chiedono di essere ravvivati per il bene di chi li abita. Il comune di Milano ha appena creato l’Ufficio Arte negli Spazi pubblici, realizzato “dal nuovo ufficio della Direzione Cultura del Comune di Milano che vuole affiancare artisti e curatori nella realizzazione di progetti di Arte urbana”. Attenzione. Qui non parliamo della cosiddetta “Street Art” che nelle strade nasce e nelle strade dovrebbe rimanere, essendo quello il suo inalienabile contesto espressivo. Si tratta piuttosto di una traslazione che porti l’arte fuori dalle proprie mura; smettere per un momento di “salvaguardarla” o “proteggerla” per poterla vivere. Un’arte all’aperto senza più cinture di sicurezza, mutabile, viva e deperibile, che possa respirare. Un’arte che non vai a trovare ma che ti viene lei incontro. Se non si possono visitare i musei come in passato è l’arte che può e dovrebbe oggi uscire dall’involucro a lei destinato, anche per aiutarla a scappare dalla “rete” a cui ora è tristemente soggetta. Per che cosa?

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Ut doceat, ut delectet, ut moveat.
  

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