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Foglio Arte

L'arte non è l'ostetrica della società

Come creare simboli senza fare propaganda

Francesco Stocchi

Dalla polarizzazione di artisti e musei contro Trump ai messaggi in stile Amnesty, lo spazio della libertà

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Le ultime elezioni presidenziali degli Stati Uniti sono state le più seguite e partecipate della storia. La crescente onda emotiva che le ha accompagnate è stata tale da prevalere sulle idee, le inclinazioni e gli argomenti che definiscono le scelte personali. Poca ideologia ma tanti scontri, tanto da ridurre la questione a una saga disneyana di lotta del bene contro il male, un conflitto che però non premia il furbo o il più forte ma i più numerosi. Sono i rischi delle regole su cui si fonda la democrazia che divengono insopportabili per quelli che soffrono di complesso di superiorità, di chi vorrebbe una società più “inclusiva” ma unicamente nei confronti di coloro che la pensano allo stesso modo. Se quindi sei del Nord Dakota, isolato nella tua frustrazione, appartenente alla maggioranza degli americani senza “college degree” (2/3 della popolazione) e che per necessità di appartenenza abbracci l’insieme della retorica dei Padri pellegrini, allora meriti i mali peggiori, alla faccia dell’inclusività. Mai dichiarazione di un politico fu così sincera e rivelatrice di un sentimento troppo diffuso per non essere espresso, come il “basket of deplorables” di Hilary Clinton nel 2016. I deplorevoli erano quella metà di cittadini che avrebbero votato per Donald Trump, che non la pensavano in linea con i neo-liberal quindi meritevoli di biasimo. Non solo un pensiero ma una convinzione di natura antropologica più che ideologica, tale da sfuggire al controllo delle chirurgiche strategie di campagna elettorale che definiscono ogni parola, tono e pausa del candidato.

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Le ultime elezioni presidenziali degli Stati Uniti sono state le più seguite e partecipate della storia. La crescente onda emotiva che le ha accompagnate è stata tale da prevalere sulle idee, le inclinazioni e gli argomenti che definiscono le scelte personali. Poca ideologia ma tanti scontri, tanto da ridurre la questione a una saga disneyana di lotta del bene contro il male, un conflitto che però non premia il furbo o il più forte ma i più numerosi. Sono i rischi delle regole su cui si fonda la democrazia che divengono insopportabili per quelli che soffrono di complesso di superiorità, di chi vorrebbe una società più “inclusiva” ma unicamente nei confronti di coloro che la pensano allo stesso modo. Se quindi sei del Nord Dakota, isolato nella tua frustrazione, appartenente alla maggioranza degli americani senza “college degree” (2/3 della popolazione) e che per necessità di appartenenza abbracci l’insieme della retorica dei Padri pellegrini, allora meriti i mali peggiori, alla faccia dell’inclusività. Mai dichiarazione di un politico fu così sincera e rivelatrice di un sentimento troppo diffuso per non essere espresso, come il “basket of deplorables” di Hilary Clinton nel 2016. I deplorevoli erano quella metà di cittadini che avrebbero votato per Donald Trump, che non la pensavano in linea con i neo-liberal quindi meritevoli di biasimo. Non solo un pensiero ma una convinzione di natura antropologica più che ideologica, tale da sfuggire al controllo delle chirurgiche strategie di campagna elettorale che definiscono ogni parola, tono e pausa del candidato.

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Consci di questa condizione che mostra le sue contraddizioni, accecati dal manicheismo, l’emotività diventa isteria dell’appartenenza, trovando nella partecipazione delle figure esposte mediaticamente, quelle conferme che i modelli sociali possono offrire. Attori, musicisti, sportivi e influencer vari si sono esposti (più o meno spontaneamente a seconda dei casi, timorosi dello slogan del “chi è silente è complice”) prendendo pubblicamente le distanze da Trump nella speranza che l’impensabile non avvenisse.

 

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Il mondo dell’arte non è certo stato a guardare, artisti, direttori di musei, galleristi, curatori, si sono espressi unilateralmente a favore del candidato democratico. Aleggiava una nuvola di sospetto su quelli che non si esponevano pubblicamente, untori del senso comune e nemici della crociata contro il male. Spesso i silenziosi corrispondevano ai profili di anziani uomini bianchi che finanziano lautamente i programmi dei musei e ne presenziano i consigli di amministrazione. Questo fermento di campagna comune contro il male ha generato numerose iniziative, mostre, aste fund raising e la conseguente produzione di opere d’arte specificatamente impegnate per perorare la causa democratica. Nulla di nuovo rispetto al passato se non che in questo caso la ricerca di chi preferiva non esprimersi è divenuta sistematica e ossessiva. L’appartenenza collegiale a determinate correnti di idee e la loro conseguente esposizione pubblica sono legittime espressioni democratiche così come lo sono forme più impegnate quali l’attivismo e la militanza. Scelte personali, a volte coraggiose, che creano comunità e animano il dibattito sociale. Quindi l’artista come individuo fa quello che vuole ma la sua arte è, o comunque dovrebbe essere, altra cosa. Come ricordava il poeta inglese Wystan Hugh Auden: “L’arte non può essere un’ostetrica per la società”.

 

L’esperienza artistica, o quello che di utilitaristico se ne può ricavare, dovrebbe rappresentare un seme che viene instillato nel suo fruitore per poi, nel tempo, crescere in società, lasciando in ogni individuo una sensibilità o delle credenze distinte perché processate dalle proprie istanze personali. Spesso prende la forma di domande, di dubbi più che l’espressione di certezze. L’arte può quindi portare un messaggio che cresce nei suoi fruitori e una volta interiorizzato viene poi formulato, invece di essere una cassa di risonanza di ciò che avviene intorno a noi. L’arte non dovrebbe essere uno slogan da adottare, neanche un didascalico insegnamento da ricevere ma una sensibilità da fare propria, un filtro attraverso il quale poi percepire e leggere il reale. Se ridotta a cronaca, l’arte perde la sua forza mutandosi in una dimostrazione dell’ovvio, rivolgendosi a una minoranza che non deve comunque essere convinta. Un “confirmation bias” che divide invece di stimolare riflessioni o creare fecondi dubbi.

 

E questo non perché l’arte è solo per l’arte, volteggiando in un mondo tutto suo, dedita all’evasione e acculturamento dei sensi. Per maggiore efficacia dei propri mezzi, l’arte non dovrebbe operare in modo diretto, finendo così per emulare il ruolo fondamentale che hanno il giornalismo, i reportage, oppure non emulare la pubblicità o essere strumento di propaganda sociale (l’arte dei regimi). Non ricalcare quindi la realtà circondante, non solo per non esaurirsi con essa, ma per offrire uno sguardo diverso, un’inversione di paradigma che interrompa la linearità del racconto. Quando nel 1966 i vari artisti minimalisti furono raccolti nella mostra Primary Structures (Jewsih Museum, New York) gli Stati Uniti si trovavano in pieno subbuglio sociale. Guerre ideologiche, razziali ma anche guerre a colpi di cannone come in Indocina, movimenti hippy e la prima ribellione di massa all’establishment dominante. Molti hanno paragonato quegli anni alle recenti proteste esplose nelle varie città statunitensi. Ma aggiungere rumore al caos non avrebbe fatto altro che legittimarlo. La risposta del minimalismo fu l’audacia della chiarezza, celebrarono un linguaggio rigoroso e silenzioso, in opposizione al clamore drammaticità dell’urlo e delle azioni non necessarie che caratterizzavano l’instabilità di quel tempo.

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Un paio di esempi concreti forse utili per demarcare il limite tra quelle che sono le responsabilità dell’arte e quello che invece oggi ci si aspetta da essa, cioè propagandistico impegno sociale. La differenza tra l’arte politica e l’arte sulla politica.

 

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In un’opera del 2016, l’artista cinese Ai Weiwei posa disteso a terra, imitando la foto della giornalista turca Nilüfer Demir che ritraeva Alan Kurdi, il bambino di tre anni annegato nei pressi di una spiaggia turca nel tentativo di fuggire dalla Siria. Un gesto di Weiwei per non dimenticare, ma che di fatto anestetizza l’orrore della cronaca trasformandosi in una parodia rispetto all’immagine che ha scioccato chiunque l’abbia vista. L’immagine di Ai Weiwei è a effetto, dall’immediato richiamo mediatico. Una rappresentazione addomesticata del dramma, un’edulcorazione debole rispetto a ciò che vuole rappresentare, utile più per una campagna di Amnesty International che per la sala di un museo.

 

L’opera Senza titolo (Ritratto di Ross in L.A.) (1991) dell’artista cubano Felix Gonzales Torres è una pila di circa 80 kg di caramelle che richiamano al corpo di 80 kg di Ross Laycock, il fidanzato dell’artista morto di Aids nel 1991. Un cartello invita il pubblico a prendere una caramella, “consumando” il corpo man mano che il tempo passa, allegoria del virus dell’Aids che si impone sul corpo di Ross, pezzo dopo pezzo, portandolo via finché non rimane più niente. Il lavoro di Gonzalez-Torres non rappresenta solo la malattia e il suo esaurimento sul corpo, ma mette in scena l’amore tra la persona che soffre e la persona che è lì per sostenerla, curarla e soffrire insieme a lei. La caramella dolce, di per sé, è una rappresentazione dell’amore, mentre la caramella viene mangiata, mentre il corpo inizia a scomparire, l’amore rimane. Una riflessione efficace sulla crisi dell’Hiv, che parte dal caso specifico e si fa allegoria di un problema sociale.

 

L’impulso dell’arte in questi tempi sembra chiedersi “come può l’arte aiutare la società a guarire?”. Ma, come sottolinea il critico statunitense Ben Davis, questa stessa domanda parte dalla falsa premessa che “l’arte” sia una sorta di strumento universale, diffuso e alla portata di tutti, e non un insieme di pratiche simboliche incorporate in una sottocultura cosmopolita molto specifica. Se le istituzioni dell’arte e della cultura più in generale hanno svolto anche un minimo ruolo nell’adulare un’insularità che rende sempre più difficile la comprensione dei suoi codici, e quindi di poter parlare a strati più ampi di persone, allora stanno danneggiato le cause che voglio difendere.

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