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il foglio arte

Questi li vendiamo. Musei che si arrendono alla crisi

Francesco Stocchi

I musei non possono vendere pezzi delle loro collezioni pubbliche, ma possono de-accederli. De-accedere, ossia liberarsi da ciò che dovrebbe essere inamovibile per statuto, consuetudine e terminologia

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Deaccession è un termine inglese relativamente nuovo, dal significato molto specifico, coniato per rispondere allo sviluppo di una pratica prima d’ora inconsueta. Né l’Oxford, né il Cambridge dictionary lo contemplano come termine ufficiale della lingua inglese, il Collins invece lo definisce così: “Vendere un’opera d’arte dalle collezioni di un museo, in vista dell’acquisizione di fondi per l’acquisto di altre opere”. Si tratta di un termine “American English”, specifica il dizionario, adottato per la prima volta nel 1972. Un neologismo in bilico tra il linguaggio simil aulico dal tono leggermente ipocrita e quello burocratico/ministeriale, coniato per schivare il più banale e dannatamente limpido “vendita”.

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Deaccession è un termine inglese relativamente nuovo, dal significato molto specifico, coniato per rispondere allo sviluppo di una pratica prima d’ora inconsueta. Né l’Oxford, né il Cambridge dictionary lo contemplano come termine ufficiale della lingua inglese, il Collins invece lo definisce così: “Vendere un’opera d’arte dalle collezioni di un museo, in vista dell’acquisizione di fondi per l’acquisto di altre opere”. Si tratta di un termine “American English”, specifica il dizionario, adottato per la prima volta nel 1972. Un neologismo in bilico tra il linguaggio simil aulico dal tono leggermente ipocrita e quello burocratico/ministeriale, coniato per schivare il più banale e dannatamente limpido “vendita”.

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I musei non possono quindi vendere pezzi delle loro collezioni pubbliche, ma possono de-accederli. De-accedere, ossia liberarsi da ciò che dovrebbe essere inamovibile per statuto, consuetudine e terminologia. La classica “collezione permanente” diventa così sempre meno permanente e indubbiamente più errabonda. E’ quanto ci suggeriscono le decisioni di una serie di musei statunitensi e inglesi (questi ultimi rifiutano il termine ma abbracciano la pratica) come risposta alla complessa situazione in cui versano le istituzioni museali in questo periodo.

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Adottata fino a poco tempo fa solo in casi eccezionali e sempre fortemente controversi, la “de-accessione” sembra ora divenuta la rapida soluzione a ogni problema in seguito alle concessioni emanate lo scorso aprile dall’Associazione dei direttori dei musei (Aamd). In passato erano chiari gli standard fissati per scongiurare monetizzazioni troppo audaci di beni culturali: non si poteva fare cassa con una collezione pubblica per finanziare costose espansioni museali o per ripianare l’assetto finanziario di un’istituzione. La “de-accessione” era concessa unicamente per l’acquisto di nuove opere.

 

Ma ad aprile appunto, date le difficoltà finanziarie generate dalla pandemia in corso, l’Aamd ha esteso la possibilità di de-accedere anche in caso di non meglio specificate esigenze di “cura delle collezioni”. Quindi l’opera d’arte non si sacrifica più per altre opere ma anche per nuove esigenze, a discrezione del museo (staff, macchinari, nuovi spazi, etc.). Il Baltimore Museum of Art (BMA) si è presto distinto tra gli altri musei per un’interpretazione particolarmente libera del termine “cura”, annunciando la messa all’asta di suoi tre gioielli: 3 (1987–88) di Brice Marden, 1957-G (1957) di Clyfford Still e L’ultima Cena I (1986) di Andy Warhol.

 

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Già assistere alla rinuncia in blocco di opere di tre artisti imprescindibili del XX secolo lascia quantomeno perplessi. Stupore che si veste di tristezza nel realizzare che in un’unica decisione vengono trasgrediti ben due codici morali: non si offrono in vendita opere di un artista ancora in vita (Brice Marden), non si mette in vendita un’opera ricevuta in dono (nel 1969 Still donò l’opera al museo, l’unica dell’artista in collezione). Laurence J. Eisenstein, avvocato ed ex membro del board del museo ha dichiarato: “Non si vendono i gioielli del museo per finanziare ciò che tutti concordiamo siano obiettivi buoni e importanti. Fai una campagna di raccolta fondi.

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Il museo ha scelto oggetti di grande valore invece di fare una revisione altamente ricercata delle 90.000 opere della collezione”. Sostiene inoltre che il museo potrebbe incassare per i tre dipinti fino a 100 milioni di dollari (rispetto a 65 milioni stimati), se il processo di offerta fosse meno travagliato e più competitivo. Intanto, due ex presidenti del board, Charles Newhall III e Stiles Colwill, si sono dimessi dal loro incarico annullando l’impegno di donare al museo 50 milioni di dollari promessi. Insomma, di fronte a una simile rivolta, a malcontenti, al ritiro di fondi (e forse al poco interesse dei compratori?), a poche ore dall’asta prevista a New York la sera del 28 ottobre, il direttore Chris Bedford cede e il museo annuncia di aver deciso di “sospendere” la vendita delle opere.

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Baltimora non è sola in questa controversia. Come stimato da Artnet News, diversi musei statunitensi dovrebbero incassare più di 100 milioni di dollari dalla vendita di opere appartenenti alle loro collezioni (le vendite sono previste da qui fino al prossimo autunno). Alcuni accolgono con favore questa decisione, come un gesto che le istituzioni stanno compiendo per cambiare sistemi considerati da tempo insostenibili; altri invece vedono con preoccupazione la tendenza dei musei a monetizzare le loro collezioni. Con qualche eccezione, si tratta di un fenomeno prettamente anglosassone.

 

Nell’Europa continentale per esempio, la concezione di preservazione delle collezioni pubbliche e quindi della storia che esse rappresentano è decisamente più rigida e garantista. Tra il 2013 e il 2016 abbiamo affrontato un simile caso presso il museo Boijmans van Beuningen di Rotterdam. “Deaccession” era definita “Herijking”, traducibile con un più delicato “ricalibrazione”, adottata per venire incontro a esigenze di esubero di opere rispetto alla capacità dei depositi. L’intenzione di liberarsi di opere della collezione era invariata, il principio era invece inverso: dopo cinque livelli di controllo (assistenti-curatori-direttori-board-comune di Rotterdam), si sarebbe potuto identificare le opere che non erano più ritenute significative rispetto al Dna della collezione.

 

Solo una volta che l’opera individuata avesse ricevuto il nullaosta unanime dai cinque passaggi, sarebbe stato possibile offrirla in dono a un museo della regione, o a un museo del paese. Solo in caso di mancata collocazione, sarebbe stata offerta all’asta (considerata un bene pubblico, il principio inviolabile è che l’opera rimanga tale prima di cederla al primo compratore). Quindi una “ricalibrazione” che non contempla il sacrificio di opere divenute costose (quindi spesso importanti per il museo e per il suo pubblico) per fare cassa o colmare vuoti, ma l’occasione di snellire il proprio lascito secondo criteri di pertinenza.

 

Dato il giusto garantismo del museo olandese, pochissime furono le opere che lasciarono il Boijmans. Non avendo quindi risolto i problemi di ingombro, si decise di costruire un nuovo gigantesco deposito (ma questa è un’altra storia). Baltimora non è sola, dicevamo, suona come triste slogan di un paese in crisi identitaria. L’Indianapolis Museum of Art at Newfields ha offerto da Christie’s una serie di disegni e dipinti francesi di artisti quali Matisse e Dufy; il Modern Art Museum di Fort Worth ha venduto (non bene) un Jules Pascin; il Laguna Art Museum ha fatto a meno di un disegno di Matisse; il Montclair Art Museum di un disegno di un minotauro di Picasso; lo Springfield Museum di un dipinto di Picasso battuto a 4,35 milioni di dollari; il Palm Spring Museum ha de-accessionato una grande opera di Helen Frankenthaler per poco più di 4,5 milioni di dollari (quasi il doppio rispetto alla stima base), e la lista continua.

 

Il mercato generalmente ama i lavori de-accessionati la cui provenienza museale aggiunge lustro all’opera e, di conseguenza, ne accresce la stima. Ma – ci chiediamo – non ci saranno troppe di queste opere sul mercato nei prossimi mesi e ci saranno abbastanza acquirenti interessati? Fuori dagli Stati Uniti il fenomeno è meno diffuso ma comunque significativo, drammatico se si considerano le scelte pesanti. La Royal Opera House ha offerto all’asta un dipinto di David Hockney nel dichiarato tentativo di restare operativa.

 

Un ritratto del celebre ex amministratore delegato (e pioniere delle arti) David Webster, stimato dai 14 ai 23 milioni di dollari: incasso, poco più di 16,5 milioni di dollari. Invece, causa le numerose proteste, anche l’imponente vendita di preziosi manufatti del Museo di Arte Islamica di Gerusalemme (circa il 3 per cento della collezione) è stata rinviata il giorno prima dell’asta dal presidente israeliano Reuven Rivlin. La Royal Academy of Arts (RA) di Londra è intenzionata a vendere il celebre “Tondo Taddei” di Michelangelo. Considerato un tesoro nazionale, La Vergine, il bambino e il neonato San Giovannino (1504-1506 circa), è l’unico marmo di Michelangelo nel Regno Unito.

 

Stimato 100 milioni di dollari, la vendita eviterebbe il licenziamento di 150 dipendenti (circa il 40 per cento dei lavoratori dell’istituzione). Poi si dice che l’arte non è utile… ma queste scelte, pigre e pericolosamente efficaci, sono figlie di due generi di crisi; quella appunto finanziaria e quella identitaria, questa più difficilmente risanabile. Anche il Brooklyn Museum si impegna nella modificazione della sua storia, adottando per tutta la stagione un calendario di vendite all’asta. I primi risultati non sono però instabili. Tra le opere offerte di Dubuffet, Matisse, Degas, Miró e Monet solo quest’ultima ha superato le previsioni.

 

Grande successo invece per un tavolo da pranzo di Mollino che con 6,2 milioni di dollari ha stabilito un nuovo record per il designer italiano. Risultato sorprendente, il Brooklyn Museum dovrebbe accendere un cero a san Mollino. Solo la settimana scorsa il museo ha de-accessionato) dieci opere per 6,6 milioni di dollari, cifra ben al di sopra delle proiezioni. La perdita maggiore (o il pezzo forte, a seconda dei punti di vista) è stato Lucrezia di Lucas Cranach il Vecchio (unica opera dell’artista in collezione), battuta a 4,2 milioni di dollari, più del doppio della stima massima.

 

L’obiettivo è quello di accumulare un fondo di 40 milioni di dollari (raccolti finora la metà) che genererebbe 2 milioni di dollari all’anno per la cura della collezione, inclusi lo stoccaggio, la conservazione e gli stipendi dei curatori. Ma nel frattempo si riscrive anche il paradigma identitario dell’istituzione, vera ossessione contemporanea statunitense. Gli artisti le cui opere sono de-accessionate sono tendenzialmente tutti uomini e decisamente bianchi. Stiamo assistendo a una rapida crescita di interesse verso artisti di colore o che rappresentano minoranze, e questa genererà nuovi racconti, visioni alternative alla nomenclatura della storia dell’arte che daranno vita a innovazioni, sorprese e augurabili sincretismi.

 

Ma oltre ad “aggiungere” secondo nuovi paradigmi, rimuovere coloro che rappresentano le colpe dei mali odierni statunitensi rischia di rivelarsi un’operazione pericolosa, portatrice di rimossi invece che di esplorazioni. E’ il secondo atto delle soluzioni nate con la campagna di revisione dei monumenti pubblici. Come nel caso dell’Everson Museum (Syracuse, NY) che ha de-accessionato un’importante Jackson Pollock per 12 milioni di dollari. Il museo ha dichiarato che questa “de-accessione” servirà all’acquisto di opere di artiste donne e artisti di colore.

 

Così come accadde nel 2018 al Baltimore Art Museum con la “de-accessione” di opere di Warhol, Rauschenberg e Franz Kline, per l’acquisizione di opere di Amy Sherald, Jack Whitten, Lynette Yiadom-Boakye e Wangechi Mutu. Negli anni, il museo si accorge di avere in custodia delle opere diventate dei tesori economici con cui risanare uno stato di crisi, decide allora di sacrificarle per rispondere a nuove esigenze culturali, di gusto e di missione identitaria. Questa rapida virata della storia rischia di provocare danni duraturi. Un museo che mostra arte astratta di qualsivoglia artista senza un’opera di Pollock in collezione, si differenzia da un museo che il Pollock lo può mostrare.

 

Quest’ultimo si troverà in una condizione molto più libera di poter osare, accoppiare, cambiare e dare vita a diverse narrative. Piuttosto che liberarsene, l’esercizio proficuo e stimolante per lo sviluppo, è quello di usare ciò che è stato ricevuto in custodia e proporlo sotto altra ottica. Reinterpretarlo e rileggerlo invece che sbarazzarsene. “La tradizione è custodia del fuoco. Non culto delle ceneri” (G. Mahler). L’attuale periodo di crisi economica per i musei consente una riformulazione nella scelta di opere legate alla cronaca attuale, che sono rilevanti socialmente ma la cui qualità e tenuta nel tempo è tutta da verificare.

 

Un museo che decide di immettere sul mercato opere impossibili da acquisire in futuro, per di più nell’ambito di una collezione sviluppatasi anche intorno a queste stesse opere, rischia di perdere ogni ragione di essere. Rincorrere il momento odierno significa rinunciare alla propria responsabilità e visione scientifica. Rincorrere il volere chiassoso del pubblico, significa mettersi nella condizione di doverlo rincorrere ancora in futuro ma arrivando sempre un attimo in ritardo.

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