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Ritratto d'autore

Mettersi nella stoffa del mondo, uscire fuori dall’arte per entrare nella contemporaneità

La riscoperta di Christoforos Savva (1924-1968) che nella sua Cipro non ancora divisa mescolava materie, figurativo e astratto come se le questioni di stile non lo riguardassero

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“Mi risulta difficile esprimermi a parole. Forse una delle ragioni per cui sono diventato un artista è che è molto più facile, per me, comunicare attraverso forme e colori” (Christoforos Savva) Malgrado sia quasi sicuramente ignoto alla maggior parte dei lettori di questo giornale e degli appassionati d’arte in giro per il mondo, Christoforos Savva (Cipro, 1924-1968) merita di essere considerato uno degli artisti più straordinari del XX secolo. Nato a Marathovounos, un villaggio in quella che è oggi la parte turca dell’isola, con lo scoppio della Seconda guerra mondiale Savva si arruolò nell’esercito inglese (in un reggimento di soldati provenienti dalle colonie britanniche, come era Cipro a quell’epoca), guadagnandosi così il diritto di studiare a Londra dopo la guerra. Alla fine degli anni ’50, passati a studiare e imbeversi di arte tra Londra e Parigi, tornò nel 1960 a Cipro, stabilendosi a Nicosia, fino alla morte prematura nel 1968.

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“Mi risulta difficile esprimermi a parole. Forse una delle ragioni per cui sono diventato un artista è che è molto più facile, per me, comunicare attraverso forme e colori” (Christoforos Savva) Malgrado sia quasi sicuramente ignoto alla maggior parte dei lettori di questo giornale e degli appassionati d’arte in giro per il mondo, Christoforos Savva (Cipro, 1924-1968) merita di essere considerato uno degli artisti più straordinari del XX secolo. Nato a Marathovounos, un villaggio in quella che è oggi la parte turca dell’isola, con lo scoppio della Seconda guerra mondiale Savva si arruolò nell’esercito inglese (in un reggimento di soldati provenienti dalle colonie britanniche, come era Cipro a quell’epoca), guadagnandosi così il diritto di studiare a Londra dopo la guerra. Alla fine degli anni ’50, passati a studiare e imbeversi di arte tra Londra e Parigi, tornò nel 1960 a Cipro, stabilendosi a Nicosia, fino alla morte prematura nel 1968.

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Produsse un corpus estremamente eclettico di quadri, sculture, oggetti di design ed elementi architettonici, sperimentazioni libere con fil di ferro e cemento, patchwork di scarti di tessuti di ogni tipo cuciti in maniera rudimentale, da lui stesso battezzati yfasmatografie (letteralmente: scritte o disegni di stoffa). Con la stessa naturalezza con cui passava da una tecnica all’altra senza soluzione di continuità, Savva poteva produrre in uno stesso periodo opere figurative e astratte, come se tecnica e questioni stilistiche non lo riguardassero, quasi a suggerire che l’essenza del suo fare artistico andava identificata oltre la superficie delle opere, nel mondo stesso. Nel maggio del 1960, appena tornato a Nicosia, Savva fondò con il pittore gallese Glyn Hughes Apophasis, una sorta di centro culturale indipendente e inedito nella giovanissima Repubblica di Cipro, che aveva da pochi mesi ottenuto l’indipendenza.

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Apophasis significa “decisione”, e la varietà di eventi diversi ed estremamente liberi lì organizzati denota quanto la decisione di creare uno spazio fosse un gesto pienamente cosciente e necessario di apertura e rottura con quanto si intendeva fino a quel momento per arte sull’isola: oltre a mostre dei due fondatori e di altri artisti della stessa generazione, vi si tennero performances, pièce teatrali, recital di poesia, sessioni cinematografiche, una mostra di disegni di bambini e soprattutto una collettiva di artisti ciprioti di lingua greca e turca, una dichiarazione d’intenti estremamente coraggiosa per l’epoca, dato che le fratture etniche, che avrebbero portato nel 1974 alla sanguinosa divisione dell’isola che permane a tutt’oggi, erano già più che evidenti. L’attività intensa ed effervescente di Apophasis costituisce, in un certo senso, il contrappunto istituzionale alla libertà stilistica delle opere di Savva: in un contesto estremamente polarizzato e diviso, infatti, appena emerso da una lunga lotta per l’indipendenza e già sul punto di essere risucchiato nel vortice dei conflitti etnici, la “decisione” di includere proposte così distanti e dispari non può essere letta che come una coraggiosa presa di posizione politica.

 

Si potrebbe dire, in questo senso, che la presenza di citazioni di materiali, tecniche e tradizioni artistiche quasi contrastanti nei lavori di Savva degli anni ’60 (dall’arte classica greca e africana all’artigianato cipriota, passando per l’arte popolare, l’arte informale e il Pop) riflette in certo modo i confronti che caratterizzavano la vita a Cipro in quegli anni. Ma è anche vero, e altrettanto affascinante, che la scelta di fondere influenze diverse, quasi senza giudizi di valore o gerarchie, o l’uso di tecniche rozze e quasi trasandate in alcuni casi e sofisticate e precise in altri, può essere letta come una presa di posizione in difesa della necessità di essere sempre aperti al prossimo e al diverso, anche se, o soprattutto quando, i tempi sembrano suggerire altrimenti (e qualsiasi riferimento o analogia a quanto succede ai nostri giorni, ovviamente, non è affatto casuale…). In una foto un po’ sfuocata scattata ad Apophasis nel 1963, Savva appare davanti a una delle sue yfasmatografie, un’enorme crocifissione in cui le gambe del Cristo sembrano dissolversi nell’abbraccio disperato delle donne che piangono ai piedi della croce.

 

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Sullo sfondo, strisce orizzontali di stoffe di colori diversi danno forma, forse, a un paesaggio collinoso, ma al tempo stesso sembrano voler continuare ad essere solo ed esattamente questo: strisce di stoffa cucite insieme in maniera precaria. Come in tutte le sue yfasmatografie, la maniera in cui la fattura quasi improvvisata del cucito è lasciata evidente non è casuale, ma rappresenta una scelta cosciente dell’artista. Lo dimostrano anche i vestiti delle donne, che malgrado il vigore dei gesti restano piatti e senza volume, o le fasce di stoffa ocra che delimitano la composizione in alto, quasi un’intrusione dell’astrazione in una scena figurativa. È come se l’artista rinunciasse a rappresentare per far sì che l’opera possa semplicemente essere, farsi parte del mondo: se non c’è più distanza tra il mondo e l’opera, è perché entrambi sono fatti della stessa materia povera e onesta, che deve mantenersi sempre visibile e riconoscibile proprio per esplicitare questa prossimità ontologica.

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Con una semplicità disarmante, Savva fonde in un unico lavoro la tradizione contadina e semplice da cui proveniva, senza paura né vergogna di rendere omaggio a un’attività di sussistenza, domestica e tradizionalmente femminile come il cucito, e la tradizione artistica occidentale di cui sentiva così fortemente di far parte, dalla grande arte antica fino alla contemporaneità di artisti come Burri o Tápies, conosciuti di prima mano a Londra e Parigi e di cui citava indirettamente la tecnica e i materiali. A rendere ancora più affascinante il tutto, c’è il fatto che il lavoro, sicuramente uno dei capolavori dell’artista, è da considerare perduto. Tutto quel che ce ne resta sono poche fotografie in cui la crocifissione fa solo da comparsa, sullo sfondo. Abbiamo già visto come la pratica artistica di Savva sembri far sempre riferimento a qualcosa che sta oltre il nostro campo di visione, ed è affascinante notare come sia l’artista, in questa foto, a guardare intensamente oltre il limite della foto, fuori da Apophasis, verso un mondo che pensava, sicuramente e a ragione, di poter contribuire a trasformare.

 

Jacopo Crivelli Visconti, curatore, vive a San Paolo, Brasile

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