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Il Foglio Arte

Chi ha ucciso gli artisti maledetti? Contro l’inchino alle vite “corrette”

Gli irregolari hanno un posto nella storia. Valutarli in base alla morale distorce il gusto e pure il mercato

Francesco Stocchi

Oggi gli artisti “scorretti” sembrano figure in via di estinzione, dinosauri sopravvissuti in un’epoca sterilizzata dove ci si cura della biografia dell’autore prima ancora che della sua opera, e cioè di ciò che veramente andrebbe giudicato

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Poeta simbolista, critico d’arte e autore francese, Gustave Kahn era una figura singolare, un tipo non omologato. “Particolare” si definirebbe pigramente oggi. Conosciuto con gli pseudonimi di Cabrun, M. H., Walter Linden, Pip e Hixe, ebbe la fortuna e la capacità di dar voce alle proprie idiosincrasie, non curandosi troppo di cosa si pensasse di lui, intendendo l’arte come spazio non protocollare, non moralizzante e in continuo bisogno di esperimenti per rigenerarsi. Il suo stravagante romanzo simbolista Le Conte de l’Or et du Silence, potrebbe essere facilmente citato come esempio di ricerca dell’equilibrio assoluto e in effetti mescola spietatamente i generi, dal racconto d’avventura alla Bibbia, dalle gesta popolari alle false evocazioni dell’Ebreo Errante, in uno stile molto più familiare ai lettori del Ventunesimo secolo che a quelli del Diciannovesimo.

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Poeta simbolista, critico d’arte e autore francese, Gustave Kahn era una figura singolare, un tipo non omologato. “Particolare” si definirebbe pigramente oggi. Conosciuto con gli pseudonimi di Cabrun, M. H., Walter Linden, Pip e Hixe, ebbe la fortuna e la capacità di dar voce alle proprie idiosincrasie, non curandosi troppo di cosa si pensasse di lui, intendendo l’arte come spazio non protocollare, non moralizzante e in continuo bisogno di esperimenti per rigenerarsi. Il suo stravagante romanzo simbolista Le Conte de l’Or et du Silence, potrebbe essere facilmente citato come esempio di ricerca dell’equilibrio assoluto e in effetti mescola spietatamente i generi, dal racconto d’avventura alla Bibbia, dalle gesta popolari alle false evocazioni dell’Ebreo Errante, in uno stile molto più familiare ai lettori del Ventunesimo secolo che a quelli del Diciannovesimo.

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Kahn amava flirtare con la decadenza e trovò nella rivista La Vogue, fondata nel 1886 insieme a Léo d’Orfer (pubblicista “irregolare, ampolloso e allucinato”), l’organo istigatore del movimento simbolista. È lì che vennero pubblicati i primi esempi di versi liberi, poi teorizzati da Kahn (sacrilegio, “chiunque può scriverli”, furono le reazioni, anticipando il sempre attuale “questo lo potevo fare anch’io”), proponendo al pubblico opere di poeti quali Paul Verlaine, Stéphane Mallarmé, Jean Moréas, Jules Laforgue. Kahn collaborò presto con Félix Fénéon, tipo poco raccomandabile, un anarchico estremamente persuasivo che viveva con la mamma. Accusato di un attentato dinamitardo in un ristorante, imparò l’inglese in carcere, vivendo sempre in bilico tra la figura del ricercato uomo di lettere e lo spietato combattente (da notare lo straordinario ritratto che gli fece Signac, tela ora al MoMA). Da fine intellettuale quale era, Fénéon coltivò una predilezione per Arthur Rimbaud, riscoprendolo perché allora dimenticato, indirizzando inequivocabilmente la rivista verso tendenze simboliste-moderniste.

 

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La maggior parte dei poeti pubblicati su La Vogue non erano certo tipi regolari, inquadrabili, o dalle condotte irreprensibili. Figure tragiche, che vivevano una vita al di fuori o contro la società. L’abuso di droghe e alcol, la criminalità condita da follia, la violenza e in generale qualsiasi peccato sociale (che spesso si traduceva in morte prematura), furono elementi tipici delle loro biografie. Erano i cosiddetti “poeti maledetti”.

 

L’espressione ha superato i confini dell’epoca per riferirsi anche ad artisti, musicisti, creativi che conducono uno stile di vita provocatorio e autodistruttivo. Nei casi più lievi, sono dei semplici asociali. Da Modigliani, chiamato Modì dagli amici francesi (ricevo oggi un invito alla proiezione di un documentario sulla vita di Modigliani, presentato come “artista maledetto, ribelle, genio scandaloso e maestro indiscusso dell’arte del Novecento: un ritratto che si spinge oltre la leggenda”) a Jackson Pollocok, ai suicidi Nicolas de Staël, Vincent Van Gogh e Arshile Gorky solo per nominarne alcuni; oppure Francis Bacon. Chi metterebbe in discussione l’opera dell’eccentrico inglese, giudicandola sotto lo spettro delle proprie condotte private? Poi Schifano, Angeli… Figure sempre esistite nell’arte e delle quali il mondo dell’arte ha sempre mostrato di avere bisogno. In particolare la borghesia che ne creato dei miti al fine di accogliere nelle proprie vite quel senso di brivido e dose di presunto rischio alla stregua del rito della caccia alla volpe.

  

Fino a qualche anno fa Jake e Dinos Chapman, duo di artisti britannici, che fanno di una cruda provocazione con buona dose di retorica il loro linguaggio espressivo, descrivevano così la loro pratica artistica: “Offriamo un buon servizio sociale ai nostri mecenati che sono l’intellighenzia borghese. Le nostre buffonate, i melodrammi e il nostro psicodramma forniscono alla borghesia la sensazione che il loro mondo sia radicale, pericoloso e audace.  È ciò che lì’arte esprime per loro”.

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Oggi però il pubblico non sembra più interessato alla “cronaca-horror amplificata”. In un disperato bisogno di realismo, amplificato da una diffusa sovraesposizione personale, si cercano modelli esemplari, inappuntabili, sani. C’è ora bisogno di premiare i “buoni”.

 

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Secondo questo moralismo manicheo di matrice puritana, se l’autore risponde ai crismi di accettabilità sociale, l’opera non potrà che essere interessante. Persone buone, producono opere buone. Nell’Ottocento come negli anni ’70 ci siamo trovati nel Romanticismo allo stato puro, con la volontà o almeno il desiderio di volerci abbandonare alle emozioni, perdersi nei propri sogni, spaventosi o rassicuranti che fossero. Questo sentimento sembra oggi svanito. Gli artisti “scorretti” sembrano figure in via di estinzione, spazzate via o relegate alla condizione anacronistica della terza età, dinosauri di un’altra era sopravvissuti nell’epoca meno romantica che si ricordi.

  

Un’epoca sterilizzata dove ci si cura della biografia dell’autore prima ancora che della sua opera, e cioè di ciò che veramente andrebbe giudicato. Per il resto c’è la legge. “Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione di molti” (Niccolò Machiavelli): il rapporto tra contenuto e immagine esteriore è argomento di vecchia data, ma sembra che il mondo dell’arte abbia deciso di intraprendere una resa dei conti nell’identificazione delle figure problematiche e talvolta violente di alcuni dei nomi più noti della storia dell’arte.

 

Curatori e di conseguenza il pubblico (o viceversa) si sentono in dovere di affrontare con rinnovata urgenza e preoccupazione le spose bambine tahitiane di Paul Gauguin, i rapporti violenti di Pablo Picasso con le donne e l’assoluzione di Carl Andre accusato dell’omicidio di sua moglie, la straordinaria artista Ana Mendieta. Lo scorso luglio, l’artista inglese Saul Fletcher ha assassinato la sua compagna Rebeccah Blum nel loro appartamento di Berlino, prima di togliersi la vita. Fatto tragico e imperdonabile senza se e senza ma, che ha innescato azioni revisioniste sulla sua arte. Un sentimento che suona come “ci eravamo sbagliati, l’opera di un omicida non può avere nessun valore artistico degno di considerazione”. La gallerista londinese Alison Jacques, che ha lavorato con Fletcher rappresentandolo dal 2008 al 2016, ha prontamente provveduto a rimuovere ogni traccia del suo rapporto pregresso con l’artista, dichiarando: “Non va bene continuare a promuovere, archiviare o esporre pubblicamente l’opera di un autore di violenza domestica e assassino, non importa quanto grande sia la fondazione o il museo interessato e non importa per quanto tempo una galleria abbia lavorato con lui e pensava di conoscerlo. Speriamo che il resto del mondo dell'arte faccia la cosa giusta”.

 

Già, fare la cosa giusta ma quale, come in “Do the right thing” di Spike Lee. Intanto, a furia di voler indirizzare le scelte presuntamente critiche come quelle di mercato, quindi di fatto indicizzando il gusto e la cultura, verso la proiezione del nostro senso di giustizia sociale (cosa rappresenta chi ha creato l’opera), rispetto all’opera d’arte in sé, si sente un gran bisogno di promuovere, celebrare e acquistare (soprattutto acquistare) artisti dalla pelle nera. L’opera, secondaria all’identità o biografia del suo autore, declassata del suo contenuto e valore intrinseco è presto divenuta oggetto speculativo in uno sfruttamento del clima di diffusa emotività. Nei mesi scorsi, un dipinto dell’artista ghanese Amoako Boafo è stato venduto dalla casa d’aste Phillips per 881.432 dollari, più di dieci volte la sua stima e più del 3.000 per cento di quello che il venditore aveva pagato meno di un anno prima. Come al solito, l’artista non ha percepito un centesimo dalla transazione e mi chiedo se si sarà sentito premiato dall’esorbitante valore di vendita, oppure sfruttato. E questo genere di riflettori abbaglianti risultano spesso dannosi per un giovane artista che non ha ancora trovato il tempo di maturare o sperimentare un proprio stile.

 

La speculazione identitaria dell’autore è talmente rampante che le case d’aste si sono viste costrette a stilare degli accordi speciali per i compratori. Ogni acquirente dovrà firmare un contratto con numerose, inedite condizioni, accettando di non rivendere l’opera all’asta per almeno cinque anni. Se desiderasse vendere, dovrà riconoscere all’artista il diritto di prelazione e, in caso di cessione a terzi, riconoscere all’autore il 15 per cento della plusvalenza. Un buon antidoto alla speculazione ma che rischia di premiare i belli e i buoni di diritto rispetto ai bravi o dannatamente talentuosi in un’inversione del postulato sartriano (“l’artista non è mai all’altezza della propria opera”). Una visione ingenua e sincera che si vuole protettiva e sensibile ma destinata al breve termine perché esigente nei confronti dell’artista più che della sua opera, e che rischia di implodere su sé stessa.

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