PUBBLICITÁ

Alÿs, che cerca l'ordine nell'occhio del ciclone

Riccardo Venturi*

I quaranta minuti della videoinstallazione Tornado offrono un’esperienza non lontana dal sublime ma a tratti esilarante

PUBBLICITÁ

Tornado (2000-10) è il titolo di una video-installazione che registra i tentativi dell’artista Francis Alÿs di entrare all’interno di un uragano, di trovare, al di là del suo vorticare, l’occhio del ciclone, là dove regna la calma. Una zona indeterminata che non costituisce né un dentro né un fuori. Impossibile risiedere al suo interno, microcosmo minacciato dal caso e dal caos, ovvero dal continuo spostamento del tornado che presto travolgerà qualsiasi cosa si trova sulla sua strada. I filmati sono registrati nell’arco di un decennio a Milpa Alta, una regione rurale e montagnosa nel Messico del sud, con la collaborazione di Julien Devaux. Nella sua eroica follia, Alÿs cerca un rifugio impossibile o mostra l’impossibilità di un rifugio al momento delle elezioni politiche in Messico – un paese dove risiede e che conosce bene –, della pandemia d’influenza suina e dell’alta mortalità per traffico di droga. 

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Tornado (2000-10) è il titolo di una video-installazione che registra i tentativi dell’artista Francis Alÿs di entrare all’interno di un uragano, di trovare, al di là del suo vorticare, l’occhio del ciclone, là dove regna la calma. Una zona indeterminata che non costituisce né un dentro né un fuori. Impossibile risiedere al suo interno, microcosmo minacciato dal caso e dal caos, ovvero dal continuo spostamento del tornado che presto travolgerà qualsiasi cosa si trova sulla sua strada. I filmati sono registrati nell’arco di un decennio a Milpa Alta, una regione rurale e montagnosa nel Messico del sud, con la collaborazione di Julien Devaux. Nella sua eroica follia, Alÿs cerca un rifugio impossibile o mostra l’impossibilità di un rifugio al momento delle elezioni politiche in Messico – un paese dove risiede e che conosce bene –, della pandemia d’influenza suina e dell’alta mortalità per traffico di droga. 

PUBBLICITÁ

 

 

“Un’immagine di una catastrofe imminente” come precisa Mark Godfrey in A Story of Deception, la mostra alla Tate Gallery di Londra del 2010 dove Tornado viene esposta per la prima volta; seguirà una tournée europea e americana (a me è capitato di vederla al MoMA di New York). Malgrado il pericolo percepibile dagli spettatori, i quaranta minuti di Tornado offrono un’esperienza non lontana dal sublime ma a tratti esilarante. Penso alle scene che si alternano alla vista a tutto campo dell’uragano, in cui seguiamo la figura minuta dell’artista correre dietro agli uragani a grandi passi e col fiato corto, finché scompare in una nebulosa dove si perde la bussola. Mentre siamo in apprensione per lui, veniamo avvolti dal roboante suono dell’installazione. La telecamera che Alÿs stringe in mano trema sotto l’attacco del pulviscolo di polvere e terra vulcanica porosa. La circolazione del suono ci fa immergere nelle immagini, ci rende compartecipi delle imprese disperate dell’artista.

PUBBLICITÁ

 
Cosa si vede da questo epicentro, da questa colonna fumosa, punto di vista privilegiato in cui pochi esseri umani hanno avuto accesso? La risposta è deludente: niente, quasi niente di figurativo eccetto sprazzi di cielo; il resto è un film monocromo e cenerino, tinto di marrone o di un giallo plumbeo. Colori che tornano nelle dodici opere su carta astratta che accompagnano la video-installazione. E pensare che il tornado costituisce uno dei pochi fenomeni in cui l’elemento dell’aria si rende visibile. Tornado registra così una straordinaria esperienza di accecamento, perseguita tuttavia con una costanza e una caparbia esemplari. Un gesto ripetuto che non si sottrae a un elemento naturale incontrollabile, non addomesticabile, come se nel penetrare all’interno del tornado fosse in gioco l’esistenza stessa dell’artista. Gesto utopico o lotta vana contro i mulini a vento? Il paragone con Don Quixote è legittimo se pensiamo che l’idea di Tornado risale alla confusione che l’artista belga fa tra i mulini a vento (molinos de viento) e i tornado (remolinos de viento).

 
La massa d’aria solleva la terra in un movimento a spirale, trascinando con sé quanto gli capita sotto mano, lo manda in frantumi, non prima di averlo fatto vorticare, portato in alto, immesso nella sua costellazione spiralica solo per scaraventarlo a terra con maggior irruenza. Una danza mortale di tutto ciò che è solido. Come scrive sempre Godfrey: “I materiali di Tornado sono, dopo tutto, polvere, aria e carne umana. Molti progetti di Alÿs coinvolgono gli elementi della terra, dell’aria e dell’acqua, e l’interazione umana con essi, ma nonostante questi elementi si muovano, rimangono nei loro luoghi distinti. Nel tornado, al contrario, la terra vortica in aria fino a perdere il confine tra ciascuno di essi, entrando nel maelstrom il corpo perde le sue coordinate”.

 
Tornado è il tentativo poetico e paradossale di cercare riparo in qualcosa che ci minaccia, che rischia di spazzare via le nostre case, gli unici rifugi che ci sono rimasti – un tetto sotto cui vivere. Il ciclone invece scoperchia le nostre case, divella il tetto, le apre al fuori come in un intervento di Gordon Matta-Clark. Una casa scoperchiata come rifugio? Col suo vorticare, Tornado è un’opera che turba. Lo è al punto che, secondo alcune voci, ancora oggi, a oltre dieci anni di distanza, Alÿs avrebbe dei problemi di respirazione ai polmoni a seguito della realizzazione di Tornado.

  
In una genealogia della presenza degli agenti atmosferici nelle arti visive, possiamo associare Tornado a La nube tempestosa del XIX secolo (1884), una serie di due conferenze apocalittiche tenute alla London Institution da John Ruskin. Il critico d’arte britannico ormai affermato – che altrove definiva le nuvole come un misto di qualcosa e di niente, un commento calzante per Tornado – non esitava a legare il deterioramento delle condizioni climatiche alla società vittoriana. Facile sostituire a quest’ultima quello che oggi chiamiamo antropocene. “Mi ci sono voluti anni per capire cosa stavo cercando”, ricorda Alÿs, “Alla fine ho capito che cercavo l’ordine nel disordine. Paradossalmente, è necessario molto ordine per creare un tornado”. Ma è in un dipinto coperto da un foglio di carta da lucido, realizzato al tempo di Tornado, che troviamo lo statement più esplicito. Su ogni petalo di un quadrifoglio è riportata una parola in spagnolo, un programma per il futuro: “etico, politico, estetico, poetico”.

  
*Riccardo Venturi, critico d’arte, vive a Parigi

 

PUBBLICITÁ
PUBBLICITÁ