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Il figlio

L’attizzatoio, le montagne, e un libro che getta una luce nella disperazione

Sandra Petrignani

La raccolta di racconti di Romana Petri tratta l’assurdo della mente umana nella complicatissima relazione, in alcuni casi infernale, che può diventare il legame madre-figlio o madre-figlia.

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Pesca in storie lontane ricreando antiche leggende, come nei più terribili fatti di cronaca più o meno recenti, Romana Petri per entrare dentro la psiche sconvolta di donne assassine, uomini violentatori, figli matti e visionari e ragazze suicide per disperazione di abusi da parte non solo maschile, ma anche di terribili madri conniventi. Mostruosa maternità (Perrone, 200 pagine, 16 euro) è un libro molto bello che entra dentro le cose – in questo caso obbrobriose – della vita con una sapienza letteraria capace di farsi consapevolezza psicologica. E riesce nel miracolo di spiegare l’inspiegabile rinunciando al giudizio, semplicemente raccontando fatti interiori ed esteriori, contemplando l’assurdo della mente umana nella complicatissima relazione, in alcuni casi infernale, che può diventare il legame madre-figlio o madre-figlia.

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Pesca in storie lontane ricreando antiche leggende, come nei più terribili fatti di cronaca più o meno recenti, Romana Petri per entrare dentro la psiche sconvolta di donne assassine, uomini violentatori, figli matti e visionari e ragazze suicide per disperazione di abusi da parte non solo maschile, ma anche di terribili madri conniventi. Mostruosa maternità (Perrone, 200 pagine, 16 euro) è un libro molto bello che entra dentro le cose – in questo caso obbrobriose – della vita con una sapienza letteraria capace di farsi consapevolezza psicologica. E riesce nel miracolo di spiegare l’inspiegabile rinunciando al giudizio, semplicemente raccontando fatti interiori ed esteriori, contemplando l’assurdo della mente umana nella complicatissima relazione, in alcuni casi infernale, che può diventare il legame madre-figlio o madre-figlia.

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Il libro, che è una raccolta di racconti legati dal tema, si apre e si chiude sul caso  di Cogne che sconvolse e divise l’opinione pubblica alla fine del gennaio 2002 e negli anni seguenti. Una giovane madre, Annamaria Franzoni, che però l’ha sempre negato, uccise il figlioletto di tre anni con violenza inaudita: sferrandogli sulla testa, mentre era ancora a letto, una trentina di colpi forse con un attizzatoio poi scomparso dalla scena del crimine. Un momento di esasperazione e di follia dovuto forse anche all’incombere intorno delle montagne, mentre lei era una creatura marina, desiderosa di socialità e invece, lassù, regnava la solitudine? Chi uccide una madre nel figlio? Davvero un’altra creatura ormai separata dal suo corpo o non piuttosto una parte di sé che non è riuscita a espellere col parto? Una parte deludente, scaturita dall’idillio di un’unità meravigliosa per diventare un altro essere persecutorio, come uno di quei tanti doppi letterari che non si uccidono se non uccidendo se stessi o almeno la parte inaccettabile di sé?


Il primo, di questi due racconti, “Le solite cose”, è un monologo di Annamaria, incapace di vedere, ricordare ciò che ha fatto, ma insieme invasa a tratti da lampi di verità non del tutto consapevoli. Un personaggio che oscilla fra negazione e ammissione in un gioco di equilibrismi che risiede  nella potenza narrativa dell’autrice. Il secondo, “Colpevole o innocente”, mette in scena il coro di voci che accompagnarono gli avvenimenti intorno alla morte del bimbo e alle fasi del processo e sugli atteggiamenti, per molti scandalosi, di Annamaria Franzoni. Qui decisiva è l’ambientazione, presso un parrucchiere di via Gallia, con le signore impegnate con la manicure che ridiscutono i particolari del caso. “Non ha mai confessato. Tutte le altre hanno sempre confessato!” E nel loro accanimento sembra di cogliere un’altra più generalizzabile mostruosità, non meno preoccupante di quella espressa dall’omicida.


Nel più misterioso e forse più bello dei racconti, “Il vino profumato”, la voce narrante è però quella di un padre che, con l’aiuto dell’alcol, violenta la figlia fin nella culla. Almeno questa è una delle possibili interpretazioni, perché tutto vi resta vago e indicibile, contraffatto, camuffato nel bisogno di trovare una ragione superiore alla colpa inconfessabile. “Ci sono cose che il tempo non cancella, quel giorno stavano zitti pure gli uccelli, me lo ricordo bene, volavano con poco movimento d’ali e poi, prendendo quota, sembravano sparire”.

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Diceva Paul Klee che “l’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”. Romana Petri centra il bersaglio. Alla fine non ne sappiamo più di prima su come arginare le “mostruose maternità”, avremo gettato uno sguardo dentro la confusione, disperazione, solitudine che sono all’origine di una pulsione assassina abnorme. E con un senso di orrore per il fondo oscuro di noi stessi.

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