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Il Figlio

Il padre del padre, Bergen-Belsen e la salvezza che ha condannato un figlio  

Michele Neri

L’autobiografia di Schwarcz è una grande lezione di vita familiare e intrecci generazionali

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Questo non si fa, con nessun figlio!”. Per gridare così, sbattendo la porta della casa dei genitori da cui era stato convocato d’urgenza per risolvere l’ennesima crisi, un uomo ha dovuto attendere quarant’anni. Nonostante avesse già avuto a sua volta dei figli e raggiunto il successo professionale, il trauma subito da piccolo non se n’era andato e lui non trovava il coraggio di protestare. Dopo un’infanzia vissuta da stabilizzatore familiare, dispensatore di allegria domestica nonché spugna capiente per sensi di colpa paterni e ansie materne, diventato adulto ha sofferto di una depressione maggiore e di un disturbo bipolare, vivendo di ricoveri e cure, scoppi d’ira e ritiri dal mondo. 

 

A dar finalmente voce alla propria angoscia, è il protagonista-autore di un memoir rivelatore e generoso: L’aria che mi manca (traduzione di Roberto Francavilla, Feltrinelli). Si tratta dell’editore Luiz Schwarcz che con la sua Companhia das Letras nel 1986 ha creato la principale casa editrice brasiliana. Dietro la posizione di responsabilità, nascosto sotto riconoscimenti e successi, viveva da sempre l’obbligo di onorare, con il proprio disagio psichico, un passato terribile, quello del padre e del padre del padre. L’autobiografia di Schwarcz è una grande lezione di vita familiare e intrecci generazionali. C’è un limite a quanto un figlio può sopportare? Se a monte i fatti sono, come in questo caso, straordinari, gli adulti possono concedersi ciò che a chi ha alle spalle una storia “normale” non è permesso? Può un singolo evento tragico condizioni la vita per decenni e come esaurisce la propria influenza? 

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André Schwarcz, un ebreo ungherese e padre di Luiz, era sul treno diretto al campo di concentramento di Bergen-Belsen insieme al padre Láios, che salverà all’ultimo il figlio buttandolo giù dal treno: Fuggi! Láios, il nonno di Luiz non tornerà mai, il padre sì. Emigrerà in Brasile, sposerà Mirta (padre e madre sono chiamati per nome, conferma di un rapporto da confidente-amico) ma non supererà mai la colpa di essersi salvato. La sua insonnia incurabile, accompagnata dal frastuono delle gambe che sbattono nel letto nella stanza accanto al bambino, sarà il rumore con cui la depressione si affaccia nella vita di Luiz. Il matrimonio vivrà lacerazioni continue: al figlio sarà chiesto di riportare gioia e pace. Compito ingiusto, eppure non può farne a meno.

Leggere L’aria che mi manca offre una prospettiva imprevista. Come non partecipare all’infelicità di Luiz, che sceglie di vivere nel modo che pensa accontenti i genitori, che non può deludere nessuno perché la casella del fallimento è già stata occupata? A lui tocca riuscire: deve affidarsi a stabilizzatori dell’umore e antidepressivi; a tredici anni di psicanalisi, a psichiatri diversi. Dopo aver letto il libro, ho guardato a lungo il viso dell’autore sulla seconda di copertina. E’ raro che le parole completino e confermino il volto, estraendo quanto, in un ritratto formale o nella versione ufficiale dell’esistenza è tenuto segreto. Quel bambino triste è riuscito a fondare una casa editrice leggendaria. L’ha salvata dal totalitarismo della depressione grazie all’uso “corretto del silenzio”, scrive. Da rifugio dal rimbombo delle crisi e dall’angoscia della vita sociale, il silenzio del lettore diventa un contributo alla letteratura. Ciò che non era riuscito a esprimere da bambino, lo fa dire agli scrittori.

 

Ci si commuove per Luiz e le sue passioni indotte (fare il portiere anche se “quelli come me non dovrebbero giocare in porta. Un minimo errore può causare un danno irreparabile alla squadra”). Per André, padre schiacciato dall’immagine del figlio che ubbidisce al padre al momento sbagliato, il momento che gli salverà la vita. E per Mirta, la madre che più di sé stessa vorrebbe salvare il matrimonio. A chi dar ragione, se tutti sono vittime? La ragione non esiste.

 

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