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il figlio

Il paradosso della paternità e uno stanzino tutto per sé chiamato Cile

Francesca Pellas

Un romanzo che indaga il cammino dall’io al noi e soprattutto l’eredità immateriale tramandata da un patrigno al suo figliastro

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Non c’è un modo solo per avere una famiglia: si può essere padri di qualcuno di cui non siamo tecnicamente il padre e si può essere figli senza esserlo, ma diventandolo anche di più. Se poi si è poeti cileni, di famiglie se ne hanno almeno due: quella con cui si divide il quotidiano e quella con cui si condivide la letteratura, ovvero la comunità intellettuale. In Cile i poeti “sono quasi degli eroi nazionali, delle figure leggendarie, ed essere poeta qui è come avere una doppia vita, due famiglie o molte famiglie”, scrive Alejandro Zambra in Poeta cileno (Sellerio), un romanzo che indaga il cammino dall’io al noi (io individuo scrivente, noi come arcipelago d’arte, l’esistenza come rincorsa verso la bellezza) e soprattutto l’eredità immateriale tramandata da un patrigno al suo figliastro. 

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Non c’è un modo solo per avere una famiglia: si può essere padri di qualcuno di cui non siamo tecnicamente il padre e si può essere figli senza esserlo, ma diventandolo anche di più. Se poi si è poeti cileni, di famiglie se ne hanno almeno due: quella con cui si divide il quotidiano e quella con cui si condivide la letteratura, ovvero la comunità intellettuale. In Cile i poeti “sono quasi degli eroi nazionali, delle figure leggendarie, ed essere poeta qui è come avere una doppia vita, due famiglie o molte famiglie”, scrive Alejandro Zambra in Poeta cileno (Sellerio), un romanzo che indaga il cammino dall’io al noi (io individuo scrivente, noi come arcipelago d’arte, l’esistenza come rincorsa verso la bellezza) e soprattutto l’eredità immateriale tramandata da un patrigno al suo figliastro. 

  
La storia inizia con due ragazzi, Carla e Gonzalo, che tutti i pomeriggi cercano di fare l’amore senza riuscirci sul divano della casa di lei, a Santiago. Si nascondono sotto una coperta fingendo di guardare la tv, ma vengono immancabilmente interrotti, una volta dalla madre, un’altra dal fratello, una dai pompieri. Quando alla fine ci riescono lui è felicissimo, lei inorridita, perciò si lasciano e Gonzalo si mette a scrivere poesie per riconquistarla, con il sogno di diventare un vero poeta. La riconquista non funziona (ma la strada della poesia, forse). Passano nove anni, poi una sera si incontrano per caso in discoteca e rinasce tutto, o meglio: nasce una cosa nuova, perché adesso sono adulti e il sesso lo sanno fare (secondo Zambra dovrebbe essere garantito a ognuno di noi, per legge, del “sesso cosmico”). Tra loro però c’è un altro uomo: uno piccolo, di sei anni, che Carla ha avuto da un ex per cui non ha stima. Il bambino si chiama Vincente. Lei a volte lo guarda giocare, salutarla, lanciarle baci, e le appare così bello da farle male; tuttavia pensa anche che la sua presenza, il suo condannarla a essere madre, rappresenti “un castigo incessante e feroce; liberamente scelto, ma incessante e feroce”. Al contempo, non saprebbe più immaginarsi senza quel figlio: lo vede allacciarsi le scarpe, osserva quei capelli neri e aggrovigliati e sa che se lui morisse lei non aspetterebbe nemmeno il funerale, si ammazzerebbe subito.

   
Quando Gonzalo entra nelle loro vite portando con sé la possibilità dell’amore e della compagnia, tanti piccoli segni comunicano che con Vincente nascerà un legame speciale, ben più forte di quello che il bambino ha con il padre, molto più forte di quello che Gonzalo pensava di poter avere con un figlio che non è suo figlio. Loro tre e la gatta Oscuridad diventano una famiglia. Gonzalo, che insegna poesia all’università e continua a coltivare il sogno di tramutarsi in quella cosa che sappiamo, ricava per sé uno studiolo da uno stanzino nel giardino: ci mette una scrivania, lo riempie di libri. Questo ricorda un fatto simile successo nella vita di Alejandro Zambra mentre scriveva il romanzo: era (ed è, perché lì vive adesso) a Città del Messico con sua moglie, la scrittrice messicana Jazmina Barrera, e stava per diventare padre per la prima volta. La stesura è proseguita con il bambino appena nato, e durante tutti i mesi che sono serviti lui ha lavorato in uno stanzino ricavato sul tetto della casa; era molto felice ma aveva anche molta nostalgia del suo paese, quindi a quel minuscolo studio aveva dato un nome: Cile. Andava perciò a scrivere in Cile ogni giorno. Il potere degli stanzini — o forse della metanarrativa di Zambra, in cui c’è sempre qualcuno che vive ciò che lui sta scrivendo e viceversa — è che lasciano delle cose alle vite delle persone: ai figli, ai figliastri, ai personaggi. Perché anche se Gonzalo e Carla a un certo punto si separano, si capisce abbastanza presto quale sarà il destino (inteso in spagnolo, come sorte e destinazione) di Vincente, che dopo la partenza del patrigno andrà sempre più spesso a respirare tra le piccole mura celesti, e lì raccoglierà la sua eredità: quella di chi è destinato a diventare, lui sì, un poeta cileno.

 

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