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Il Figlio

Dopo La Spinta

Valentina Furlanetto

Un libro che toglie il sonno e allora mia nonna, mia madre, io e mia figlia

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Cara Annalena, ho letto La Spinta, di Ashlery Audrain (Rizzoli), di cui tu hai scritto sul Foglio. L’ho iniziato alle otto della sera, con il tepore rassicurante di mia figlia accanto sul divano, e l’ho finito alle due di notte con la sensazione che mia figlia avrebbe potuto farmi male. Ho chiuso l’ultima pagina e mi sono alzata dal letto in preda al terrore, ho vagato per la casa vuota, affacciandomi alle stanze dei miei figli per controllare che non nascondessero lamette sotto il cuscino per uccidersi uno con l’altro o uccidere me. Ho controllato che la candeggina fosse al suo posto, nel ripiano dei detersivi, che i bicchieri non puzzassero di veleno, anche se non conosco l’odore del veleno. Sono tornata nel mio letto piena di vergogna e angoscia. Ovviamente non ho dormito.

 

Il libro di Audrian è un horror famigliare dove il dolore “non arriva dal mondo di fuori, ma dal mondo di dentro”, come hai scritto tu. La protagonista del libro è una donna che cerca di aderire al ruolo di mamma perfetta che il marito le ha assegnato, ma ha alle spalle una mamma che l’ha abbandonata e una nonna che non era in grado di amare nessuno. A ogni pagina teme di replicare quel modello. A spezzare questa catena non basta una figlia desiderata e bellissima, anche perché la figlia è cattiva, o perché si sente rifiutata o perché è proprio nata cattiva. Di sicuro fa cose terribili. Ma le fa davvero o è la madre che le immagina? Chi è pazza e anaffettiva, la madre o la figlia? Tutto il romanzo gira attorno a queste domande, fino all’ultima pagina.

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Ho pensato a mia nonna, a mia madre e a me. Quanto deve essere stato difficile per mia nonna Rosa, che entrava e usciva dai reparti psichiatrici, essere madre? Quanto deve essere stato complicato per mia mamma essere sua figlia? Dove è finito quel dolore? Si è trasferito da una all’altra per arrivare fino a me o si è disperso nelle generazioni? E se si è disperso, che cos’è questa fitta sotterranea? Sono stata sicuramente una delusione io per mia madre quando un’estate di tanti anni fa, quando ero adolescente e lei si era appena separata, mi sono fatta portare a Ferragosto al mare da una amica e l’ho lasciata andare via da sola. Del suo dolore io non mi accorgevo. Mi tappavo le orecchie per non sentirlo. Tanti anni prima, quando avevo appena sei mesi, mia madre mi ha messo a balia perché lei faceva i turni di notte come infermiera e non poteva tenermi con sè. Sono stata con questa famiglia, in una casa non mia, un anno intero. Quanto deve essere stato penoso per lei lasciarmi lì? Quanto deve essere stato traumatico per me? Dice un giorno questo dolore ti sarà utile. Utile un cazzo.

 

Avere qualcuno che possa aiutarti, avere un asilo nido, avere mia mamma, quello sarebbe stato utile. Ho pensato anche a quando mia figlia era appena nata e io non riuscivo ad allattarla e stavo malissimo, fisicamente e psicologicamente. Oltre alle sue urla ricordo gli occhi puntati di parenti, ostetriche, amici che si aspettavano una soluzione da me che io non avevo. Mi ricordo solo che sudavo tanto e mi vergognavo immensamente. Una notte, tra i suoi strilli e la mia infinita stanchezza, l’ho presa in braccio, l’ho guardata e ho pensato: adesso apro le mani, cade e si rompe. Che sollievo. Mi domando se a mia nonna e a mia mamma sia mai capitato un pensiero così, un momento come quello che ho vissuto io. Mi domando se quando mia figlia non si voleva attaccare al seno era lei che non voleva o ero io che non sapevo come fare, se era lei che mi rifiutava o se ero io che pensavo ecco meno male, le daranno il biberon.

 

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Mi domando come sia possibile che tutto il combattimento dei primi mesi si sia trasformato in questo tepore sul divano, in questo suo appoggiarsi a me, in questa ansia di sapere come è andata l’interrogazione, se ha saputo spiegare il plesso brachiale, se a ricreazione si è parlata con l’amica, se ha mangiato, se è felice. E mi chiedo se non si debba proprio attraversare quel momento buio, quell’attimo in cui pensi apro le mani e lei cade, per capire che se cade tu la afferri.

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