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Il Figlio

Se tu non fossi bella

Simonetta Sciandivasci

La vendetta nel tempo che passa. Nell’ultimo romanzo di Teresa Ciabatti, quel che resta di noi

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Avevo un’amichetta che pesava cento chili. Lei settanta, io trenta. Diceva sempre: ti supero di quaranta! E rideva. E allora ridevo anche io. Una volta, dopo aver fatto i compiti insieme e aver giocato e guardato Peter Pan, il nostro preferito perché nessuno si sposava e tutti volavano, decidemmo di copiare gli indiani del film e prendemmo a fare giravolte e capriole davanti alla tv, sul tavolino del soggiorno, uno di quelli che reggono il peso di un paio di riviste e di un vaso con i fiori, e infatti lo sfasciammo alla seconda capriola, la mia. Dissi a mia madre che era stata lei, certo che era stata lei, con quei quaranta chili in più, e mia madre non si arrabbiò, nè mi punì. La sentii raccontare tutto a mio padre, ore dopo, e la sentii dire “poverina” e sapevo che non parlava di me, la sentii ridere e sapevo che non rideva di me.

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Avevo un’amichetta che pesava cento chili. Lei settanta, io trenta. Diceva sempre: ti supero di quaranta! E rideva. E allora ridevo anche io. Una volta, dopo aver fatto i compiti insieme e aver giocato e guardato Peter Pan, il nostro preferito perché nessuno si sposava e tutti volavano, decidemmo di copiare gli indiani del film e prendemmo a fare giravolte e capriole davanti alla tv, sul tavolino del soggiorno, uno di quelli che reggono il peso di un paio di riviste e di un vaso con i fiori, e infatti lo sfasciammo alla seconda capriola, la mia. Dissi a mia madre che era stata lei, certo che era stata lei, con quei quaranta chili in più, e mia madre non si arrabbiò, nè mi punì. La sentii raccontare tutto a mio padre, ore dopo, e la sentii dire “poverina” e sapevo che non parlava di me, la sentii ridere e sapevo che non rideva di me.

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Qualche anno dopo gliene feci una molto più grossa, quando si innamorò di un mio compagno di classe che però di lei non voleva saperne: andai da lui e gli chiesi se poteva fingere di essere il suo fidanzato. Ogni volta che mi capita una cosa brutta, mi dico che la sto pagando per quelle menzogne, che coincidevano con i miei privilegi – essere una bambina bella e “normale”, almeno secondo gli allora indubitabili criteri con cui la normalità si stabiliva. Riconoscere di essere stata una bulla mi fa stare bene, mi fa sentire perdonata. Però non chiude i conti. L’espiazione di quello che ci hanno fatto fare i privilegi, le identità sicure, le case borghesi, le adolescenze in centro, negli anni della fine della storia, l’ultimo ventennio del secolo scorso, riempie la letteratura di questo nostro tempo, e la coscienza collettiva, e i ripensamenti, e le correzioni. Ma non chiude i conti e anzi ne nasconde parecchi, falsa il bilancio. Esiste il male che facciamo ai brutti, che purtroppo include il non volerli chiamare brutti, ai diversi, agli anormali, ma esiste anche il male che facciamo ai belli, al talento, alla grazia, alla purezza.

 

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Teresa Ciabatti ha scritto un libro, Sembrava bellezza (appena uscito per Mondadori), che racconta quest’altro male che facciamo, difficilissimo da vedere e riconoscere, perché le sue vittime hanno l’aspetto dei carnefici. Soprattutto, Teresa Ciabatti ha scritto un libro sul fatto che la bellezza non dura non perché è effimera, ma perché è insopportabile e fa impazzire chi la incontra, è una colpa, ha tutte le colpe degli specchi. Arriva nel mondo, plana nelle vite di un gruppo di amici, di un liceo, di una palestra, di una sorella, sotto forma di ragazza bellissima, bionda, ricca, amata, profumata, graziosa, intelligente, e nessuno sa sopportarla, e tutti la spolpano con i giudizi, con il desiderio, con l’invidia, con i confronti. La protagonista, anzi la testimone, che usa il tu, il noi, il voi, il lei, che è Ciabatti ma con riserva, racconta una storia dove “i fatti e le persone sono reali, ma fasulla è l’età di mia figlia, il luogo di residenza, altro”. La storia di due amiche, “due adolescenti sovrappeso ma di piglio, che sullo stesso tappetto su cui giacciono a lamentarsi si rianimano: se la vita va male a noi, che vada male anche agli altri”, che crescono all’ombra della sorella poco più grande di una di loro.

 

Livia, bellissima, che a un certo punto sparisce – sono gli anni dei sequestri dei cittadini privati, dopo il sequestro di Moro, gli anni di Emanuela Orlandi, di innocenza che si paga, “ragazzi scomparsi, di giovinezze spezzate, plotone di zombie, mandria, eravamo confusi, esagitati, impauriti, infelici, il minimo pericolo, un’ombra ingigantita sul muro ci faceva sobbalzare (ed era la nostra)”. Livia sparisce e quel che le succede cambia la vita di tutti, perché rende tutti colpevoli di non aver visto che soffriva anche se è bella, e con quel suo essere bella fa soffrire gli altri, perché le persone come Livia sono metalli preziosi: si usano per misurare il valore di tutto il resto. Livia splende e dà a tutti la scusa di sentirsi inadeguati e incrudelirsi, e dirsi vittime, esclusi, rifiutati, rifiuti: se tu non fossi così bella, io non sarei così brutta. La testimone e la sua amica, la sorella di Livia, provano a lungo a vendicarsi, a estendere a tutti la loro reclusione, la sconfitta che a una viene dal non essere nemmeno una brutta copia della sorella e all’altra dall’essere una paesanotta catapultata a Roma, ai Parioli, senza aver stazza, spirito, peso, vestiti, natali adatti. Livia scompare per colpa loro e la colpa è non essersi accorte che Livia è come loro: cerca amore, vuole tenerezza, conforto. Ha addosso l’enorme peso di essere il capro espiatorio dell’orrore degli altri. D’essere la loro vergine suicida, ma sopravvissuta.

 

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