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Il figlio

L’ho abbracciato

Valentina Farinaccio

Per la prima volta nella mia vita ho sognato mio padre e ho festeggiato i 40 anni con lui

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Per la prima volta, questa notte, ho sognato mio padre. Indossava uno smoking, che è proprio un abito che mio padre non avrebbe mai messo. Cresciuto in calzoncini e canotta, con al massimo una tuta sopra per coprirsi dopo gli allenamenti, mio padre ha adoperato tutti i suoi anni nel tentativo di perfezionare il corpo. Di lucidarlo col sudore, per insegnargli la resistenza, e farlo arrivare primo al traguardo. Mio padre era un atleta, un marciatore professionista. E la marcia, rispetto agli altri sport, pretende uno sforzo di concretezza, quasi un esercizio di umiltà. Devi essere veloce, sì, ma senza mai staccare del tutto i piedi da terra. Se lo fai, se sfidi il volo, vieni squalificato.

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Per la prima volta, questa notte, ho sognato mio padre. Indossava uno smoking, che è proprio un abito che mio padre non avrebbe mai messo. Cresciuto in calzoncini e canotta, con al massimo una tuta sopra per coprirsi dopo gli allenamenti, mio padre ha adoperato tutti i suoi anni nel tentativo di perfezionare il corpo. Di lucidarlo col sudore, per insegnargli la resistenza, e farlo arrivare primo al traguardo. Mio padre era un atleta, un marciatore professionista. E la marcia, rispetto agli altri sport, pretende uno sforzo di concretezza, quasi un esercizio di umiltà. Devi essere veloce, sì, ma senza mai staccare del tutto i piedi da terra. Se lo fai, se sfidi il volo, vieni squalificato.

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A squalificare mio padre, però, quando io ero nata da poco e lui non aveva ancora compiuto ventotto anni, ci ha pensato una leucemia fulminante. Di quelle che oggi, per fortuna, hanno una buona possibilità di guarire. In ogni modo, stanotte l’ho sognato per la prima volta. Era vivissimo, elegante. Qualcuno mi diceva: “Valentina, guarda che lì c’è tuo padre, vai, corri!”. E io mi voltavo a guardare, incredula, ed effettivamente c’era, ad aspettarmi con le braccia spalancate, al centro della piazzetta della mia città. Andavo, allora, gli camminavo incontro sapendo che era morto e che, però, improvvisamente non lo era più. In lacrime, con le spalle che mi facevano su e giù per i singhiozzi, mi torturavo i capelli con le mani. In imbarazzo all’idea di conoscerlo, trovavo perfino la forza di impormi di prestare attenzione al momento esatto in cui lo avrei abbracciato. Che quello sarebbe stato l’odore di mio padre. Il suo calore. E mi sentivo impreparata, nel procedere verso di lui, perché non eravamo mica una neonata e il suo papà! No, noi eravamo due che non si sono mai visti. Adulti, entrambi. Sconosciuti, in buona sostanza. Lui, un’età stabilita dall’inconscio. Io, quella di oggi. Lui che sorrideva, evidentemente felice, io che piangevo, chiaramente scossa. Quando sono arrivata lì, a un passo da quell’abbraccio che mancandomi ha minato tutta la mia vita, mi ha detto, con una voce che io non avevo mai sentito: “Sembri una bambina”.

 

E sono le uniche parole che mio padre mi abbia mai rivolto.

 

Ho festeggiato con lui un compleanno, il primo. E ho una foto soltanto, di quel giorno. Ci sono io – la torta al cioccolato davanti, e addosso un vestito smorfioso tutto pieno di minuscoli fiori –, fra mia madre e mio padre. Lei, 22 anni, bellissima. Lui, 3 mesi e 23 giorni prima di morire. Dalla foto, si capisce che non ho ancora imparato a camminare, a stare in piedi, e infatti mio padre cerca di tenermi. Lo fa con delle mani smunte, esauste. Lo fa con quelle braccia già troppo sottili, che hanno perso il vigore, dimenticato gli allenamenti, e che ci stanno provando disperatamente, ma che disperatamente non ce la fanno.

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Ho compiuto quarant’anni, quest’anno appena finito. Li ho compiuti da sola, perché non si poteva fare altrimenti. Avevo organizzato una festa, sul finire di febbraio. Una festa per quaranta amici che non ho avuto neanche il tempo di invitare. A inizio marzo, infatti, ho mandato una mail al gestore del locale, per disdire la prenotazione e rinviare tutto a sei mesi dopo: avrei festeggiato i quarant’anni e mezzo, pazienza. Nel giorno del mio compleanno, invece, sono andata a comprarmi una pizza gigante. E per riempire la solitudine, l’ho mangiata tutta. L’ho mangiata fino a stare male. Fino a poter dare alla pizza la colpa di quel magone.

 

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E a settembre, proprio quando c’era da riorganizzare, e invitare, il virus è tornato dalle vacanze. La parola festa si è fatta di nuovo inopportuna, e i locali hanno chiuso un’altra volta. Così, a dicembre, mi sono ritrovata con il peso di questo anno importante, rotondo, ma incompiuto. Ho cercato di dargli un senso, l’ho interrogato, sfinito, e ci ho girato attorno a vuoto, stancandomi. Fino a questa notte.

 

Crescere senza un genitore non è solo un fatto tragico. Crescere senza un genitore è soprattutto una disabilità emotiva. Qualcosa dentro che non funziona. Un capriccio infantile di sottofondo, che perennemente reclama quello che non ha avuto.

 

Così credevo, almeno. Perché poi mio padre è venuto a trovarmi, nell’anno dei miei quaranta, per dirmi che sembro una bambina. Con i piedi mai del tutto staccati da terra, per paura di sfidare il volo e di essere squalificata da quel sogno, alla fine l’ho raggiunto. Alla fine l’ho abbracciato. E i locali sono ancora chiusi, è vero, ma io ho soffiato, finalmente, su tutte quelle candeline.

 

Valentina Farinaccio
scrittrice

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