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IL FIGLIO

Il re è un fifone

Micol Flammini

Le regole di mio padre per diventare la regina degli scacchi. “Trasforma in storie  le partite”

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Hai preso il blocchetto?” Ultima domanda prima di partire. “Sì, certo”. Il punto è che gli scacchi non si giocano, si disegnano, e quando si parte per un torneo non va portata la scacchiera, mai. Ai tornei le scacchiere ci sono già, ma per allenarsi serve il disegno, l’immaginazione, la strategia, l’arte e questa è una delle prime regole di mio padre negli scacchi: disegna le mosse. Il viaggio in macchina verso il torneo era una partita a scacchi tutta di testa. “A te il bianco”. “Pedone in F4”. “Così ti esponi subito, aspetta”. Mio padre vinceva sempre perché io mi dimenticavo le mosse fatte, i pezzi già mangiati, lasciavo le torri  a poltrire nei loro angoli.  Più le sconfitte si sommavano in queste partite immaginarie, più la paura per i tornei aumentava, perché durante le competizioni i bisbigli, i paesaggi, la particolarità di un pedone o l’intarsio di una scacchiera diventavano improvvisamente per me interessantissimi, molto più della mia partita e del mio avversario. “Ricordati di essere veloce”, era la scialuppa di salvataggio, il consiglio che forse mio padre non avrebbe mai voluto dare, perché negli scacchi la velocità non è una virtù, ma per me era una necessità: più durava una partita più la mia testa si allontanava dal tavolo da gioco e tornava al paesaggio, al tormento per l’intarsio.

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Hai preso il blocchetto?” Ultima domanda prima di partire. “Sì, certo”. Il punto è che gli scacchi non si giocano, si disegnano, e quando si parte per un torneo non va portata la scacchiera, mai. Ai tornei le scacchiere ci sono già, ma per allenarsi serve il disegno, l’immaginazione, la strategia, l’arte e questa è una delle prime regole di mio padre negli scacchi: disegna le mosse. Il viaggio in macchina verso il torneo era una partita a scacchi tutta di testa. “A te il bianco”. “Pedone in F4”. “Così ti esponi subito, aspetta”. Mio padre vinceva sempre perché io mi dimenticavo le mosse fatte, i pezzi già mangiati, lasciavo le torri  a poltrire nei loro angoli.  Più le sconfitte si sommavano in queste partite immaginarie, più la paura per i tornei aumentava, perché durante le competizioni i bisbigli, i paesaggi, la particolarità di un pedone o l’intarsio di una scacchiera diventavano improvvisamente per me interessantissimi, molto più della mia partita e del mio avversario. “Ricordati di essere veloce”, era la scialuppa di salvataggio, il consiglio che forse mio padre non avrebbe mai voluto dare, perché negli scacchi la velocità non è una virtù, ma per me era una necessità: più durava una partita più la mia testa si allontanava dal tavolo da gioco e tornava al paesaggio, al tormento per l’intarsio.

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Sapevo di dover essere veloce, perché tutte le mosse e le strategie dovevo tenerle congelate, compatte e prigioniere nella mia testa prima che volassero via. Che fosse inverno o estate, d’estate un po’ peggio, con una scacchiera davanti pensavo a tutto fuorché agli scacchi. Mio padre, allora, che di  concentrazione ne aveva poca per qualsiasi cosa ma moltissima per gli scacchi e il tennis, mi suggerì di  inventare dei racconti. D’altronde cosa sono i rapporti tra i vari pezzi se non storie? “Che rapporto c’è tra i pedoni? E il cavallo? Dove vuole andare? L’alfiere, dove corre così di sbieco?”. Ogni partita diventava una nuova storia, un rapporto passionale e sempre tragico tra regine, torri abbattute, salti di cavalli, scacchiere infuocate, burroni. Tutto era  straziante tra quegli scacchi, quei personaggi perdutamente medievali, innamorati e animati da ideali grandissimi, vivissimi. Il re faceva sempre la figura del fifone, quello che si muoveva un passetto alla volta, rattrappito nella sua corona, intimidito dal suo potere, un vile che l’unica volta che faceva un passo in più era per nascondersi con l’arrocco. Spesso mi fermavo a considerare il fatto che se io fossi stata la regina, mi sarei rifiutata di difendere, con tutte quelle mirabilie che potevo fare – muovermi avanti e indietro, in diagonale con infiniti passi a disposizione – un re  autoconfinato nelle ultime file della scacchiera, tanto pavido da mettersi addirittura dietro a un pedone. Per un po’ questa strategia funzionava, sentivo una sinfonia di spade, il crepitìo del fuoco, vedevo i pezzi danzare, muoversi, piangere, scivolare, vedevo l’avanzata verso le file avversarie e assistevo compiaciuta e sadica alla disfatta del castello dell’altro re, che non soltanto era un vigliacco, come il mio, ma era stato anche meno abile a  motivare le sue schiere. Nella velocità e dietro agli accerchiamenti degli spettatori, con mio padre sempre distante ma del quale mi sembrava di percepire i suggerimenti e anche i brividi di rabbia per qualche errore “troppo sciocco per essere da te”, sono anche tornata vincitrice, con coppe, scacchiere e qualche cioccolatino a forma di re. 

 

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Ero arrivata a sentirmi i quadri bianchi e neri in testa, dopo un’estate trascorsa al mare a giocare e a riportarmi a casa sabbia nella scacchiera. Quando lo dissi a mio padre si illuminò, era felice, iniziammo a leggere libri sulle strategie, biografie di scacchisti, nella sua libreria c’era anche un testo in cirillico, che nessuno dei due capiva, ma era un manuale  che con lettere e numeri lui riusciva a decifrare. Ovunque andassimo disegnavamo scacchiere, ma il problema era sempre il solito: iniziavo con entusiasmo, poi, più la partita andava avanti più mi stancavo e arrivavo a un timidissimo, ma accoratissimo “Patta?”,  sapendo che la proposta lo avrebbe fatto arrabbiare: lui avrebbe potuto battermi in tre mosse e  non lo faceva  per gentilezza.  Un giorno però mi disse: “E se avessi davanti la morte, credi di poterle proporre: ‘Patta?’”. Ormai le strategie narrative, di regine temerarie alla conquista della scacchiera, non riuscivano più a tenermi concentrata. Per motivarmi era arrivato il momento del “Settimo sigillo”. Il film divenne una dipendenza, i viaggi in macchina si trasformarono in una partita tra Antonius Block e la Morte, io ero Block e si finiva sempre a ridere moltissimo, talmente tanto che Bergman non avrebbe gradito. 

 

Il mio addio agli scacchi, che poi è stato un arrivederci,  fu quando arrivammo nel posto prefissato per un incontro, uno di quei tornei guardoni  e ben poco educati, visto che la scacchiera non era stata disposta sul tavolo con tutti i pezzi. Improvvisamente,  non ricordavo la loro disposizione e soprattutto non ricordavo la prima frase pronunciata da mio padre per insegnarmi il gioco: “Regina bianca scacco bianco”. Poi da lì si iniziano a mettere in fila gli altri. Sola, davanti a un avversario che mi sembrava terribile, non riuscivo neppure a percepire i suggerimenti di mio padre che arrivavano anche quando non c’erano. Invocai tutti, mio padre, Block, Bergman e la Morte. Non arrivò nessuno. Mi alzai, me ne andai e giurai a mio padre che non avrei fatto mai più un torneo nella mia vita: “Papà,  ho perso”. “No, questa è patta”.

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