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Il figlio

Quante femmine

Giacomo Giossi

Non posso mettere al mondo figli, sono troppo impegnato a generare (e uccidere) padri

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E’ successo tutto in pochi mesi e a un tratto mi sono trovato circondato da bambine. Figlie tutte femmine nate da amici e parenti, alcune con nomi corti come Ada (sempre entusiasta), Mina (sempre seria), Nina (che dorme poco) e alcune con nomi da Italia risorgimentale come Anita (a cui invece piace dormire) e Rachele (che è nata pochi giorni fa). Un accerchiamento improvviso. Un agguato in piena regola. Forse anche per colpa del mio scarso spirito di osservazione che il lockdown ha decisamente ingigantito mi sono trovato all’improvviso attorno – come nate in un soffio – tutte queste piccole e paffute giovani donne ben decise a prendersi la scena dei prossimi mesi e anni.

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E’ successo tutto in pochi mesi e a un tratto mi sono trovato circondato da bambine. Figlie tutte femmine nate da amici e parenti, alcune con nomi corti come Ada (sempre entusiasta), Mina (sempre seria), Nina (che dorme poco) e alcune con nomi da Italia risorgimentale come Anita (a cui invece piace dormire) e Rachele (che è nata pochi giorni fa). Un accerchiamento improvviso. Un agguato in piena regola. Forse anche per colpa del mio scarso spirito di osservazione che il lockdown ha decisamente ingigantito mi sono trovato all’improvviso attorno – come nate in un soffio – tutte queste piccole e paffute giovani donne ben decise a prendersi la scena dei prossimi mesi e anni.

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Stupito e a tratti terrorizzato sono così finito sotto la lente d’osservazione, un vero e proprio caso clinico da indagare. Illuminato dall’occhio di bue di colui (più spesso che di colei) che avvolto in una sorta di lenzuolo tibetano dentro cui con disinvoltura soggiorna una bebè, mi ha puntato la domanda in faccia: “E tu quando metti al mondo un figlio? Una figlia? Quando?”. Domanda chiaramente lasciata inevasa a fronte della mia evidente e goffa quanto rigida impassibilità (almeno in apparenza). Diciamo subito che si tratta di una domanda assurda e anche fuori luogo. E poi come si fa non dico a pensare, ma anche solo ad immaginare di mettere al mondo figli? Non dico oggi, il contesto in fondo è roba da storyteller, ma dico sempre, in generale. In assoluto. Se penso a me stesso mi pare assolutamente e perentoriamente impossibile.

 

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Ripercorro così a tappe forzate il mio viaggio esistenziale e mi rendo conto che ogni mio gesto, ogni mia azione da quando posso dire di essere conscio di me si è rivolta esclusivamente ad un’unica grande missione: mettere al mondo di continuo e sempre nuovi padri. Nascere, aprire gli occhi, guardare gli altri, l’asilo e il primo sport: lo scherma durato pochissimo, l’atletica durata un po’ di più ma insomma. E poi la scuola e quindi le ripetizioni al pomeriggio e il lavoro che prima è d’estate poi si prende tutto l’anno. Ogni volta un padre messo al mondo fatica, sudore, ma anche con speranza e fiducia. E ogni volta – va da sé – inutile stupirci, l’assassinio del padre. A ogni padre nato ne corrisponde infatti un precedente morto, ucciso, abbattuto. In poche parole per me l’idea di mettere al mondo si lega irriducibilmente con quella di uccidere, annientare. Fare posto al futuro qualunque sia il passato da lasciare alle spalle.

 

Di quasi tutti i padri che ho messo al mondo non mi pento di nessuno, ma mi pento quasi sempre della loro scomparsa, dipartita, eliminazione dall’orizzonte. Mi diceva paternamente, non a caso e forse temendomi, un vecchio professore: “Fai figli subito, falli ora che sei giovane, non tardare. Dopo le energie svaniscono ed è solo il caos”. Ma io come potevo? Dovevo già badare a lui, da poco entrato nella schiera dei miei padri. Si dice che sia naturale, anche giusto. Ci si emancipa, si cresce, si fa carriera. Tuttavia resto fermamente convinto che uccidere i padri (seppur naturale) sia terribile e anche tremendamente ridicolo. Non ne vale mai la pena. Ci si emancipa certo, ma si rimane sempre quello che loro hanno illuminato di noi, magari pensando pure di illuminare altro di noi. Si cresce e si prendono i tic, i vizi e i vezzi che di loro volevamo eliminare. Si fa carriera uccidendo questo è vero, ma bisognerebbe imparare ad uccidere (e a salvare) di volta in volta i padri giusti e questo non è mai naturale e ci riescono quei pochi figli sempre gentili e sempre ipocriti. Osservo questi figuri saputi e luminosi che come venuti dal nulla compaiono sulla scena lasciando dietro le quinte i resti dei loro omicidi. Ammiro il loro tempismo di cui non non sono mai stato capace, ma temo la loro lucidità metallica e fredda.

 

Ho ucciso molti padri anche se ho capito subito che non è il mio mestiere, non ne sono capace. Qualcuno infatti sopravvive e nel cuore della notte mi manda messaggi o mi chiama al telefono. Qualcuno mi appare persino in sogno, sono feriti mi dicono. Dovrei finirli penso, ma non ci riesco e tutto va avanti dondolando stracarico e disordinato come il carro di Capitan Fracassa. Certo la voglia di far figli è stata a tratti forte, alle volte lo è ancora, ma ha la forma di una permanenza che non mi appartiene. Il desiderio si è mosso infatti più spesso attorno al rubare, al prendere e poi scappare. Un desiderio irrequieto e sempre immaturo, anche se non mi spingerei poi a giudizi morali così decisi. Ho rubato con piacere, ma non sono mai stato capace di uccidere con precisione predisponendo tutto per bene. Ho così messo al mondo molti padri e più che ucciderli alla fine li ho abbandonati e in alcuni casi traditi senza sapere poi quale direzione prendere, ma come un vero ladro ho scelto la via del titolo di un libro di Stefano Moretti, poeta: scappare fortissimo.

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