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Il Figlio

Un papà al suo fianco

Lorenzo Marone*

Come padre sono nato dopo, ma tutto quel che tramando è mio, e ora gli ripeto: io ci sarò sempre

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Una cosa ho compreso in questi anni, che nell’essere padre c’è molto dell’essere figlio. La genitorialità porta a un passo dalla propria infanzia, è un viaggio dentro sé stessi. Nel mio tentativo quotidiano di meritare tale appellativo e ruolo, mi trovo a far fronte comune con mio figlio grazie al bambino che sono stato e che ancora risuona in me, mi accorgo che spesso il sentire di Riccardo è il mio sentire di un tempo, in uno scambio continuo di dare e avere. Non ho esempi da mostrargli però, nel fondo della mia infanzia non ci sono uomini in piedi, nessun ruolo da tramandare, alcuna rotta sicura, neanche una traccia segnata. Ho scarsi e nebulosi insegnamenti paterni a guidarmi, mi fanno compagnia più silenzi che parole. Non ho avuto l’amico da contrapporre al nemico, il padre che ti difende dalla sfuriata della madre, e viceversa, ho obbedito a un’unica legge, giusta o sbagliata che fosse, ho avuto poco a cui disobbedire, e questo mi ha fatto debole.

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Una cosa ho compreso in questi anni, che nell’essere padre c’è molto dell’essere figlio. La genitorialità porta a un passo dalla propria infanzia, è un viaggio dentro sé stessi. Nel mio tentativo quotidiano di meritare tale appellativo e ruolo, mi trovo a far fronte comune con mio figlio grazie al bambino che sono stato e che ancora risuona in me, mi accorgo che spesso il sentire di Riccardo è il mio sentire di un tempo, in uno scambio continuo di dare e avere. Non ho esempi da mostrargli però, nel fondo della mia infanzia non ci sono uomini in piedi, nessun ruolo da tramandare, alcuna rotta sicura, neanche una traccia segnata. Ho scarsi e nebulosi insegnamenti paterni a guidarmi, mi fanno compagnia più silenzi che parole. Non ho avuto l’amico da contrapporre al nemico, il padre che ti difende dalla sfuriata della madre, e viceversa, ho obbedito a un’unica legge, giusta o sbagliata che fosse, ho avuto poco a cui disobbedire, e questo mi ha fatto debole.

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Perciò come padre ci ho messo del tempo, sono nato dopo. Ma sono autentico, questo sì, non sono altri al di fuori di me, quel che tramando è mio, non passo a mio figlio la staffetta di qualcuno, solo le emozioni che mi tengono in piedi, i dolori che mi hanno formato, le paure che mi tolgono il respiro. Non ho impalcature a difesa, alcuna sovrastruttura, cedo il mio vissuto, nel bene e nel male. E mi rammarico del tempo che stiamo abitando, che mi offre agitato al gioco con lui, con il respiro corto tento di camuffare i cattivi pensieri, ma è difficile. La necessità di protezione del padre si frantuma davanti all’imponderabile che spavaldo ci zittisce, e nei pomeriggi tutti uguali resto a chiedermi se la mia recita basterà o se le paure faranno parte anche di lui, la punizione più grande. Però so che almeno non dovrà meritare il mio amore, non dovrà faticare una vita per trovare un briciolo di orgoglio o di accudimento nel mio sguardo, ed è già tanto.

 

Io sono al suo fianco tutti i giorni, a volte impaziente, a volte triste, ma sono lì, e voglio credere che questo mio semplice contributo possa non fare di lui un bambino rotto. Non sono indulgente con me stesso, mi accorgo dei miei gesti immotivati, del mio nervosismo fuori luogo, mi pento l’attimo dopo averlo soffocato anche solo con lo sguardo. Mi divora la colpa dell’aver vissuto male per troppo tempo, la paura di mostrargli la parte di me senza valore, mi preoccupo di insegnargli a costruirsi un domani degno, a non dare per scontata la bellezza, e mi alleno per essere pronto ad accogliere i suoi fallimenti. Umberto Eco diceva che diventiamo ciò che nostro padre ci ha insegnato nei momenti di noia. Io non so star fermo in una stanza, sono preda del desiderio che tutto mi rende insufficiente, e mi chiedo se sia un bene o un male, però mi sforzo di rendermi ai suoi occhi affidabile, lo spingo a credere che le cose funzionino, che gli altri siano un’àncora, e mi premuro di lasciargli più ricordi sereni che lo aiutino un domani a tenere la barra dritta. Il suo richiamo nella notte mi ripaga, è coperta che copre dal freddo, e la mia risposta pronta al suo ‘papà’ mi spinge a pensare di aver fatto le cose giuste, di essere Dio.

 

Gli ripeto che io ci sarò sempre mentre attendo che arretri di nuovo nel sonno, e forse è una bugia, ma si cresce anche con quelle. Indugio su di lui che dorme e mi uccide vederlo crescere così in fretta. E nel silenzio mi preparo un giorno a saperlo felice altrove. Oggi mi piace crederlo senza difetti, ma prego affinché possa vivere così a lungo da cancellare la parte sbagliata di me che porterà in lui. Non esiste nulla al mondo di così definitivo come la genitorialità, nulla incide tanto su ogni futura scelta quanto l’essere padre e madre. E’ la più grande cessione volontaria di libertà, la più grande costrizione, nei momenti di sconforto è rammarico per il tempo andato, può essere la chiave giusta nella porta sbagliata, è passo dal quale non si torna indietro, scalata che ti trova impreparato e toglie l’ossigeno, eppure i piedi vanno. A volte è ruolo, la tonaca da indossare per recitare il personaggio. E’ il momento topico nel quale ci accorgiamo infine dell’amore dei nostri genitori, al quale non credevamo davvero.

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E’ trapasso per l’età adulta, e mi dispiace dirlo per chi genitore non è, scorciatoia per i più deboli, per gli eternamente figli, evento che ti sradica una volta e per tutte dall’utero materno. E’ la muta dell’essere umano, ti cambia la pelle, e ti fa per un po’ inspiegabilmente solo, eppure vicino alla folla di esistenze che ti ha preceduto. E’ storia antica e lontana, di sopravvivenza e caso, amore e sacrificio, la genitorialità. Per me, che altra fede non ho, è testo sacro. Da quando sono padre cammino nel mondo con entrambi i piedi.

 

*Da ieri è in libreria il nuovo romanzo “La donna degli alberi” (Feltrinelli)

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