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Il Figlio

Un bimbo che cade

Francesco M. Cataluccio

Sbucciarsi le ginocchia a Londra, con la mamma, e a Firenze, col papà. Il dolore lieve

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L’altra mattina, nel lungo e deserto marciapiede dietro l’angolo di casa mia, da lontano mi è corso incontro un buffo bambino. La sua corsa non era propriamente da atleta: piuttosto scomposto, caracollava dimenando le braccia come le ali di un goffo papero che cerca di volare. Poi è inciampato, si è piegato senza metter le mani avanti ed è finito affrittellato sul selciato a un paio di metri da me. Un urlo e un pianto acutissimi. Molto dietro di lui lo seguiva la madre indaffarata col cellulare ma vigile alla corsa del figlio. Lui mi ha guardato con gli occhi bagnati di lacrimoni. Cercava aiuto e conforto. Mi sono fatto subito avanti, piegandomi, ma con la coda dell’occhio ho visto la madre che affrettava il passo. Ho pensato che non dovevo permettermi di star vicino al bambino (lui non aveva la mascherina) e toccarlo per aiutarlo a rialzarsi.

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L’altra mattina, nel lungo e deserto marciapiede dietro l’angolo di casa mia, da lontano mi è corso incontro un buffo bambino. La sua corsa non era propriamente da atleta: piuttosto scomposto, caracollava dimenando le braccia come le ali di un goffo papero che cerca di volare. Poi è inciampato, si è piegato senza metter le mani avanti ed è finito affrittellato sul selciato a un paio di metri da me. Un urlo e un pianto acutissimi. Molto dietro di lui lo seguiva la madre indaffarata col cellulare ma vigile alla corsa del figlio. Lui mi ha guardato con gli occhi bagnati di lacrimoni. Cercava aiuto e conforto. Mi sono fatto subito avanti, piegandomi, ma con la coda dell’occhio ho visto la madre che affrettava il passo. Ho pensato che non dovevo permettermi di star vicino al bambino (lui non aveva la mascherina) e toccarlo per aiutarlo a rialzarsi.

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Ho fatto due passi indietro e, nel frattempo è arrivata la mamma. Lo ha tirato su piuttosto bruscamente e gli ha detto che aveva combinato un bel guaio a cadere per terra dove, soprattutto in questo momento, pullulano i virus e batteri schifosi. Mi sono allontanato ancora un po’, mentre lei gli puliva le ginocchia insanguinate con un improbabile e spiegazzato fazzolettino giallo. Lui, tirando su col naso, mi guardava di sottecchi, come per farmi sapere che mi considerava un “traditore”. Ho balbettato una giustificazione: “Scusa, ma di questi tempi è meglio non toccarsi”. La madre guardandomi appena e trascinando via il figlio mi ha apostrofato: “Non si toccano i figli degli altri, mai!”.

 

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Proseguendo quindi per la mia strada mi è tornata in mente un’immagine molto lontana. Un parco di Londra in estate. Mio fratello e io, bambini completamente vestiti di bianco, giocavamo al pallone su un prato magnifico ma insidioso: tra i fili d’erba ben rasata facevano capolino migliaia di sassolini aguzzi e affilati. Tutto intorno a noi giocavano altri ragazzini che ci ignoravano ostentatamente. Ogni tanto qualcuno di loro si sfracellava sui sassetti. Un solo urlo e poi il sangue. Non accadeva nient’altro. Noi ci fermavamo a guardare gli altri che riprendevano a dar calci alla palla attorno al ferito e le loro madri che continuavano tranquillamente a chiacchierare, sedute sulle panchine. Quando però era uno di noi due a cascare, non c’era bisogno di urlare. Dalla panchina dove stava conversando con le altre signore, la nostra mamma schizzava come un fulmine e correva a soccorrerci. Si metteva in ginocchio, ci abbracciava consolandoci e dalla sua borsa da Mary Poppins tirava fuori disinfettanti, cerotti, garze, pomate

 

Allora i ragazzini inglesi si fermavano a osservare quel gruppo di matti italiani che cercava di imitare, in mezzo al prato, la scena della Pietà. La mamma poi ci spiegava che il comportamento compassato delle madri inglesi non era dovuto allo scarso amore ma, anzi, a un preciso intento educativo: “ce la devi fare da solo, io ci sarò solo per le situazioni veramente gravi”. Anglofila com’era (come lo sono spesso le insegnanti della lingua di Shakespeare) ci informava che, per questo motivo, gli inglesi erano dei soldati bravissimi e coraggiosi e, grazie alla loro capacità di soffrire e farcela da soli sin da bambini, erano riusciti a fermare le armate di Hitler. Questo ci insegnò a rispettare quei poco socievoli bambini lentigginosi, ma soprattutto apprezzare il fatto di esser curati dalla nostra mamma.

 

Perché, a Firenze, dove il compito di portarci ai giardinetti spettava spesso al babbo, se ci capitava di cadere sul ghiaino e sbucciarci le ginocchie, lui posava flemmatico il libro che stava leggendo, si alzava dalla panchina e si avvicinava in silenzio. Si piegava ed estraeva da una tasca un limone e il temperino. Tagliava il limone a metà e ci premeva il bruciante agrume sulla parte sanguinante. Col tempo, tanto era terribile il dolore dell’acido citrico sulla ferita, imparammo a cadere in silenzio, lanciare rapidamente un’occhiata verso il babbo distratto nelle sue letture, e rialzarci facendo finta di niente. Tornati a casa, quando la mamma costernata gli faceva notare che le nostre gambe e mani erano tutte graffiate e impiastricciate di sangue e terra, il babbo sornione se la cavava sempre con una massima di Seneca: “Lieve è il dolore che parla, il grande è muto”.

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