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Il Figlio

La vita nova, la scuola e l'adolescenza che non si ferma

Annalena Benini

Se Dante resiste, resistiamo anche noi. Buoni motivi per essere ottimisti

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Ho ricevuto un vocale da mio figlio, che per adesso  va ancora a scuola ogni mattina, in seconda media: ho preso nove nella poesiaaaa. In sottofondo voci di compagni che ridono e gridano: ho fame, rumore di scarpe da ginnastica e di cortile, insomma la festa della vita che non si ferma. 

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Ho ricevuto un vocale da mio figlio, che per adesso  va ancora a scuola ogni mattina, in seconda media: ho preso nove nella poesiaaaa. In sottofondo voci di compagni che ridono e gridano: ho fame, rumore di scarpe da ginnastica e di cortile, insomma la festa della vita che non si ferma. 

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La poesia in realtà è  il sonetto di Dante su Beatrice nella Vita Nova (“Tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia quand’ella altrui saluta” (se scrivi su Google anche solo la parola “tanto”, ecco arrivare di corsa il sonetto come primo risultato, ecco Beatrice che avanza, il coronavirus non ha spazzato via Dante dalle ricerche online, questa è un’altra buona notizia). Sono quattordici versi, e mio figlio per undici anni della sua vita non si è mai accorto che esiste una parte del cervello dedicata non ai videogiochi ma alla memoria. Il sonetto l’abbiamo studiato insieme ieri, per tre ore che mi sono sembrate trentasei, in cui la sua voce si è fermata trentasei volte alla terza parola e nei suoi occhi vedevo solo canarini morti in gabbia. 


Poiché ho provato più volte, durante quella poetica quarantena in cucina, l’impulso di buttarmi dalla finestra, di sfasciare almeno un mobile, anche solo un tavolino oppure, più prudentemente, di andare a chiedere perdono in ginocchio all’insegnante di mio figlio a nome di tutto il Paese, ho accolto quel messaggio vocale pieno di urla e di batteri entusiasti con molta commozione. 
Per Dante, che resiste, per Beatrice e per il suo spirito soave e pien d’amore, ma soprattutto per la scuola. Commozione per la scelta di andare avanti, anche in Didattica a distanza, a gruppi, senza banchi,  con i turni, con le lavagne luminose nel computer, con la telecamera accesa e l’audio spento, con la tazzina di caffè nascosta dietro un libro, con i pantaloni del pigiama sotto la scrivania e con il gatto che dorme sopra il vocabolario di Inglese. Immersi fino ai capelli nel gel antibatterico e nella vitamina C, e con le mascherine sparse per tutta la casa come le foglie d’autunno al parco. 


Ci dimentichiamo sempre, per questi ragazzi verso i quali ci sentiamo colpevoli di furto di adolescenza – come se fosse bello ritrovarli a ogni ora del giorno e della notte con le scarpe sul divano (ma anche le nostre scarpe erano così enormi, quando eravamo adolescenti, così ingombranti, così minacciose, così mostruosamente viventi?) – che loro hanno il potere, la possibilità e la forza di inventarsi altre mille adolescenze. Anche se il luna park dell’esistenza è temporaneamente fermo, e le vasche su e giù per il corso fortemente sconsigliate, le feste e i concerti annullati, e molto di quello per cui vale la pena di avere diciassette anni è adesso vietato, la sostanza indiscutibile delle cose è sempre la stessa: avere diciassette anni. Lo è anche su un’isola deserta o in una comunità mennonita in Paraguay. Ma qui, adesso, con il virus che ci travolge e ci stupisce, gli adolescenti rinchiusi hanno sempre le cose magiche con cui sono nati e cresciuti: Internet, le videochat, le serie tv sui telefoni, la musica illimitata, tutti i film e tutti i libri del mondo, e lo sforzo degli insegnanti di tenere accesi i loro cervelli anche a distanza, oltre a questa sconfinata giovinezza in cui una telefonata di gruppo può durare anche tutto il giorno e in cui l’energia non si consuma e gli occhi risplendono e ridono di tutto. E’ davvero così poco?  

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In una riunione scolastica su Zoom, la professoressa di Greco, dopo aver pregato con gentilezza ed esasperazione i genitori di costringere i figli a non comparire mai più nella lezioni online a testa in giù, “scusatemi ma non posso interrogare persone appese al soffitto, mi viene la labirintite”, ha detto una cosa importante: io non sono disfattista, voi non siate disfattisti. 
Ma se per la prima volta in tre anni posso fregiarmi dell’aver partecipato a una riunione di scuola grazie a Zoom, come posso essere disfattista? Ma se mio figlio ha imparato a dire “benignamente e d’umiltà vestuta” (dopo aver detto per duecentonovantanove volte “bagnamonte e d’umidità investita”, e io stavo per distruggere quel tavolino con un’ascia), come posso non essere di nuovo fiduciosa e piena di speranza? 


Si poteva fare meglio, ma questa condizione di smarrimento e paura riguarda l’umanità intera, e anche un certo grado di mistero sulla feroce impennata del virus:  noi abbiamo il compito di sopravvivere, e di essere utili a noi stessi e agli altri. Possiamo  rinunciare a divertirci per qualche mese, e possiamo ripetere ai nostri figli in gabbia quel che diceva ai suoi il padre di Natalia Ginzburg durante le noiose villeggiature in montagna: “Voialtri  vi annoiate perché non avete vita interiore”. Certo, adesso il pensiero di una noiosa villeggiatura in montagna provoca un brivido di eccitazione lungo la schiena, mentre il lockdown che si avvicina ha già l’aria di non finire mai. Ma se la scuola resiste, se Dante resiste, resistiamo anche noi con Beatrice, “che va dicendo a l’anima: sospira”.                 

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