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Il Figlio

La mia terra

Giacomo Giossi

Tutto il dolore che non volevo leggere, e che invece mi appartiene. Il focolaio di Bergamo

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Appena comparso in libreria ho evitato accuratamente il libro di Francesca Nava, Il focolaio. Da Bergamo al contagio nazionale (Laterza), guardandolo di sfuggita, evitandolo, scansandolo quasi dai banchi della libreria ogni volta che mi capitava a vista. Che fiducia potevo mai dare ad un’inchiesta giornalistica che sarebbe sicuramente stata superata dagli eventi? E poi nonostante la stessa Francesca Nava sia di Bergamo (come lo sono io) che fiducia dare al racconto di una città e di una terra così impermeabile alle narrazioni? Meglio lasciar perdere, meglio evitare questo facile gioco al racconto, all’inchiesta che ci tormenta ogni volta che un fatto diviene discorso comune. Poi un amico di poche parole e non facile ai complimenti (e ancora meno agli entusiasmi), – bergamasco anche lui, quindi – ha scritto di questo libro e ne ha parlato bene. Semplicemente bene. E allora Il focolaio che avevo nascosto sotto pile di altri libri improvvisamente è tornato a cercarmi in questi giorni in cui il dramma delle terapie intensive è nuovamente un fatto quotidiano. E ho fatto i conti così con i miei pregiudizi e con una terra natale che vedo da lontano ormai da mesi se non per dei faticosi e fuggevoli ritorni.

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Appena comparso in libreria ho evitato accuratamente il libro di Francesca Nava, Il focolaio. Da Bergamo al contagio nazionale (Laterza), guardandolo di sfuggita, evitandolo, scansandolo quasi dai banchi della libreria ogni volta che mi capitava a vista. Che fiducia potevo mai dare ad un’inchiesta giornalistica che sarebbe sicuramente stata superata dagli eventi? E poi nonostante la stessa Francesca Nava sia di Bergamo (come lo sono io) che fiducia dare al racconto di una città e di una terra così impermeabile alle narrazioni? Meglio lasciar perdere, meglio evitare questo facile gioco al racconto, all’inchiesta che ci tormenta ogni volta che un fatto diviene discorso comune. Poi un amico di poche parole e non facile ai complimenti (e ancora meno agli entusiasmi), – bergamasco anche lui, quindi – ha scritto di questo libro e ne ha parlato bene. Semplicemente bene. E allora Il focolaio che avevo nascosto sotto pile di altri libri improvvisamente è tornato a cercarmi in questi giorni in cui il dramma delle terapie intensive è nuovamente un fatto quotidiano. E ho fatto i conti così con i miei pregiudizi e con una terra natale che vedo da lontano ormai da mesi se non per dei faticosi e fuggevoli ritorni.

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Leggo in una notte insonne il libro e mi ritrovo in un dolore che appartiene a chiunque abbia presente la forma e i colori dei nomi dei paesi e delle valli, delle piazze e delle strade citate e raccontate in un testo che evitando accuratamente facili story-telling ha la forma emotiva di una vera e propria Spoon River. Mi ritrovo figlio di una terra le cui contraddizioni ognuno di noi eredita nel proprio corpo, nella propria indole con odio e solo a tratti con affetto, che spesso è più di maniera che consapevole, giusto per “non metterla giù troppo dura”. L’aspetto forse più sorprendente del libro è il rapporto con la nostalgia: il volume si apre con una dedica al padre e si chiude con un ringraziamento sempre al padre scomparso dodici anni fa. La nostalgia qui è un motore e non un freno, un modo “per tenere duro”. Si parte da Alzano Lombardo, domenica 23 febbraio è la data cardine, il giorno in cui tutto cambierà per sempre, e le vite di migliaia di persone verranno travolte. Si alternano i nomi di Franco, Cristina, Ernesto, storie minime il cui destino risulterà legato drammaticamente alle dichiarazioni e agli atti di ministri, presidenti di regione e assessori.

 

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Francesca Nava quella domenica è a Roma, parla con sua zia Paola, sono evidenti le contraddizioni, qualcosa non torna in quello che sta avvenendo all’ospedale di Alzano Lombardo. Parte tutto da lì, dall’incapacità di riconoscere il virus e quindi di difendersi. Un volano per una serie di pressapochismi e di errori (anche inconsapevoli), una vera e propria alluvione che devasta Bergamo e la sua provincia. Fa i nomi Francesca Nava, i nomi propri delle persone che vengono risucchiate dal virus come in un girone dantesco. Il focolaio, intervista dopo intervista, dà forma al racconto di una tragedia, di un tempo cambiato per sempre in cui tutto è veloce e ravvicinato. Il contagio si scatena in pochissimi giorni, eppure qualcuno ha già capito e molti altri ancora fingono di capire o non vogliono affatto capire. Il rimpallo delle responsabilità non avviene più a tragedia avvenuta come eravamo abituati in passato, ma a tragedia in corso, quando ancora qualcosa si potrebbe fare, qualche morto forse ancora evitare. Non ci può essere assoluzione. Non è nemmeno immaginabile che si possa cancellare quello che è avvenuto agli affetti e al corpo di una comunità ferita e violata spudoratamente.

 

In questo viaggio i conti si fanno prima di tutto con noi stessi, con quel rapporto così duro da diventare complicato con un luogo che è diventato oscuro e difficile da spiegare e raccontare come spesso lo siamo noi che da quel posto veniamo sempre come di nascosto, scoperti per l’accento più che altro, ma da cui non portiamo che pochissimi racconti e quasi nessuna storia. Che cosa ti serve? Di cosa hai bisogno? E’ necessario? Bergamo nonostante la ricchezza evidente è un posto dove il servire, il bisogno e la necessità sono gli elementi primari di ogni desiderio. Come stai? Prima quasi non si usava, verrebbe da dire con una battuta. Il libro di Francesca Nava, giornalista e documentarista, ci obbliga a provare a capire cosa è successo e a prenderci cura dei morti, di quel tempo finito che è nostro e che ci obbliga a vivere ancora, soprattutto nella cura e nel ricordo dei padri.

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