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IL FIGLIO

La riparazione

Alberto Schiavone

Il padre arrestato dalla Gestapo e la memoria che consola e avvelena. Bravo Régis Jauffret

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“Alfred, sono nato con la sola missione di darti una riparazione. I figli vengono al mondo per fare da medicina ai genitori. Gli esseri umani come funamboli che hanno bisogno del pendolo della genitorialità per non cadere nel burrone”. Confesso, sono innamorato di Régis Jauffret. No, non soltanto innamorato. Ne sono pieno e compiaciuto. Lucidamente conquistato. L’ho scoperto di recente leggendo una parte delle sue magnificenti e rigogliose Microfictions. E voglio continuare a leggerlo con la stessa attenzione e sete e ferocia. Forse soltanto con Richard Ford ho ricevuto la stessa scarica di fuoco e gelo allo stesso tempo. Clichy, che ha in catalogo già “Dark Paris Blues”, “Il banchiere” e “Cannibali”, pubblica anche questo testo, “Papà”, tradotto da Tommaso Gurrieri. Lo leggo e ne scrivo mentre il mio, di padre, è alle prese con un ciclo di chemioterapia. Non ci parliamo da sette anni. A volte, i libri. “Dei genitori si deve dire solo la verità”.

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“Alfred, sono nato con la sola missione di darti una riparazione. I figli vengono al mondo per fare da medicina ai genitori. Gli esseri umani come funamboli che hanno bisogno del pendolo della genitorialità per non cadere nel burrone”. Confesso, sono innamorato di Régis Jauffret. No, non soltanto innamorato. Ne sono pieno e compiaciuto. Lucidamente conquistato. L’ho scoperto di recente leggendo una parte delle sue magnificenti e rigogliose Microfictions. E voglio continuare a leggerlo con la stessa attenzione e sete e ferocia. Forse soltanto con Richard Ford ho ricevuto la stessa scarica di fuoco e gelo allo stesso tempo. Clichy, che ha in catalogo già “Dark Paris Blues”, “Il banchiere” e “Cannibali”, pubblica anche questo testo, “Papà”, tradotto da Tommaso Gurrieri. Lo leggo e ne scrivo mentre il mio, di padre, è alle prese con un ciclo di chemioterapia. Non ci parliamo da sette anni. A volte, i libri. “Dei genitori si deve dire solo la verità”.

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La parola papà è un monumento vecchio e impolverato su cui non si posano gli occhi del compilatore di guide turistiche, sovente nemmeno dei curiosi. Eppure quella parola fa venire i brividi e rosicchia le ossa. Papà è letteratura pesante, non ha il permesso della commozione e dell’abbandono. Papà è imbarazzo, virtù celate, pene condivise. Jauffret cade dentro la propria biografia guardando la televisione. Suo padre è ormai morto da tempo, “per trent’anni è stata una mummia”. All’interno di un documentario sulla Francia di Vichy appare un uomo che viene portato via da casa dalla Gestapo. Quell’uomo è Alfred Jauffret. “Quei sette secondi di pellicola hanno risvegliato il bambino annidato negli strati più profondi di me, dandomi un’inestinguibile sete di padre”. Qui iniziano le capriole del ricordo e della ricostruzione da parte dello scrittore. Che riscopre e riscrive la vita di suo padre attraverso l’intuizione, più della verità e della memoria. Il dettaglio inventato, il narratore che si permette di riesumare un'anima. Si permette di aggiungere, ricamare, spostare a suo piacimento, dialoghi compresi con la moglie, i colleghi, i parenti, lo scrittore bambino stesso.

 

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“Si ha il diritto di sognare il proprio padre”. Chissà la Gestapo dove lo stava conducendo? Lo avevano torturato? Alfred Jauffret era stato un eroe? De Gaulle lo aveva premiato o salutato in silenzio? Alfred aveva venduto i compagni di Resistenza? O quella scena non era mai esistita? “Il passato è un mondo autonomo in cui esistono universi interi che non sono mai divenuti presenti. Del ricordo di te vorrei fare quel papà adorato di cui non eri nemmeno l’ombra”. Eppure non c’è mai rimpianto vero nelle parole del figlio. Il padre viene sempre dipinto con benevolenza, una pietas che si posa senza biasimo: quell’uomo diventato presto sordo aveva poche dimensioni in cui essere migliore di quello che è stato. “Avrei preferito non averlo conosciuto. Mi sarebbe piaciuto che facesse lo sforzo di morire da eroe”. Poi però Jauffret ride, ci beve su. Si prende gioco di se stesso prima che del genitore, così goffo lui in vita e così goffo l’altro in morte. “Si tende sempre a esagerare la propria infelicità”. Infatti. “Un’infanzia felice. La profano. La massacro. Non me ne daranno un’altra quando l’avrò fatta a pezzi. Non ne avrò più nessuna. Un giorno confesserò ai miei nipoti di non averne mai avuta una”. 

 

Jauffret ha le armi dell'omicidio, qui invece regge il braccio a un omino che pare essere stato sempre vecchio, sempre padre, sempre un po’ sconfitto e solo. La comprensione è impossibile nel presente, se non in un esercizio di manierismo. Se “il passato è una necropoli” bisogna camminarci attraverso e senza fretta per capire cosa siamo diventati e come. Grazie a chi. Per colpa di chi. Il narratore si sposta sempre a sponda, di rimbalzo, colando via, sanguinando forse, su se medesimo. “Ci si dà troppa importanza”. Si sente il bisogno di parlare sempre delle proprie sventure, delle proprie lacrime. Pagine di diario, messaggi sul telefono, telefonate, sedute di analisi. Romanzi. Urlare quello che saremmo potuti essere. Insieme, magari. Ma ci si pensa soltanto quando si è ormai soli, stanchi, un poco perduti. Chi è allora il protagonista di “Papà”, romanzo di Régis Jauffret? Il tempo senza pace, gli uomini che passano indenni alla gloria, la memoria che agisce da solvente malvagio e da consolazione. La fantasia è la costruzione dove ripararsi, ma senza trasformarla in menzogna altrimenti si rischia di raccontare la verità. Si sa che “non bisogna mai fidarsi dei romanzieri”.

 

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