(Foto Pixabay)

Speriamo che non pubblichino i messaggi, che ridicola speranza

Annalena Benini

La protezione dei bambini arriva fino a dove comincia la morbosità per la storia di Prato

Dal primo giorno in cui sui giornali è uscita la vicenda della donna di Prato e del ragazzino di (allora) tredici anni da cui ha avuto un figlio, ho pensato: speriamo che non pubblichino i messaggi. Purtroppo avevo letto, tutti avevamo letto, che c’erano molti messaggi. Speriamo che non pubblichino i messaggi, ci sono i bambini di mezzo, c’è un neonato, c’è un bambino di undici anni, c’è un ragazzo di quindici, c’è una donna e c’è un marito che teme gli portino via il figlio (adesso, i figli, visto che di nuovo queste spaventose indiscrezioni dicono che la Procura ha chiesto il test del Dna sul secondo figlio della donna, e ha mandato un avviso di garanzia a lui per “alterazione di stato”, visto che ha riconosciuto il figlio come proprio anche se forse sapeva che non lo era).

  

 

  

Hanno arrestato una donna con l’accusa di violenza sessuale su un minore, l’hanno prima indagata e poi arrestata per proteggere il minore, e però intanto i giornali si sono riempiti della vita intima di questo minore, dei suoi messaggi disperati o concilianti, della sua confessione della relazione con la donna che, in quanto amica di famiglia, gli dava ripetizioni di inglese. A Prato, per giunta: in una piccola città dove ora tutti possono godersi questo spettacolo, i genitori dei compagni di scuola, i compagni di scuola stessi, i frequentatori della palestra, i colleghi di lavoro, gli amici di un bambino di undici anni a cui chiederanno se è sicuro di essere proprio figlio di suo padre. Più che a una protezione, questo trattamento assomiglia allo scempio delle vittime.

 

  

E vorrei sapere: a che cosa serve, in questo caso specifico, la pubblicazione dei messaggi? A quale dovere, urgenza, necessità risponde? Che cosa aggiunge alla notizia dell’arresto di una madre di due figli, per violenza sessuale su un adolescente? Se si vuole una storia morbosa, si può andare al cinema, si può leggere un romanzo, si possono fare un sacco di cose, si può andare in tivù di propria volontà a raccontare o ascoltare qualche disgrazia. Ma non si può offrire la vita dei bambini come pasto quotidiano, a puntate sui giornali, ogni giorno qualcosa di più torbido, ogni giorno un piccolo colpo di scena.

 

Diciamo di essere infinitamente in pena per i possibili traumi dei nostri figli, per la loro privacy, per internet che è pieno di insidie, chiediamo continuamente l’età per tutto, se non sei maggiorenne non posso neanche sapere di che colore hai gli occhi, se non sei maggiorenne sei sempre Cappuccetto Rosso che incontra il lupo e noi dobbiamo proteggerti, se non sei maggiorenne portami il consenso scritto dei tuoi genitori, se non sei maggiorenne decidiamo tutto noi, è per il tuo bene, e poi prendiamo tre vite di tre bambini (tre vittime) e le gettiamo in bocca a chiunque voglia leggere una orribile storia di provincia con tutti i dettagli. E scriviamo “amante ragazzino” e non abbiamo pietà né delle sue lacrime né di quelle di un neonato. Anzi, fingiamo di avere pietà, ma solo per chiedere e offrire altri particolari. Questo ragazzo che adesso ha quindici anni ha avuto prima l’adolescenza distrutta da un’adulta sventurata, e adesso ci stanno pensando tutti gli altri adulti a impedirgli di riprendersi. Speriamo che non pubblichino i messaggi, che ridicola speranza, non ci avrebbe creduto neanche un bambino.

Di più su questi argomenti:
  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.