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I due Renoir

Lisa Ginzburg

Padre e figlio, regista e pittore. L’incessante allegria di un rapporto di amore e libertà

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Per parlare del padre, il regista Jean Renoir diceva “Renoir”. “Renoir, mon père” è anche il titolo della biografia scritta dal figlio di questo artista famosissimo. Un ritratto/omaggio senza niente di celebrativo o enfatico; piuttosto un racconto allegro, e riverente, nella sua irriverenza. Jean diceva “Renoir”, come se quello “vero” non fosse lui, ma il padre soltanto. Quasi si trattasse di ammirare un lignaggio identitario di cui lui figlio facesse parte solo in parte. Là dove i due Renoir sono un caso raro di relazione felice, di identità che senza sovrapporsi od oscurarsi, ben definite invece fioriscono, diverse. Contigue ma diverse.

  

Amava molto il padre, Jean Renoir: di un amore senza particolari difficoltà psicologiche interiori dichiarate. In un’intervista televisiva che si può vedere nell’esposizione in queste settimane allestita al Musée d’Orsay a Parigi (Renoir père et fils, Peinture et cinéma), il regista Jean racconta quanto quel padre pittore, Pierre-Auguste, sia stata per lui figura chiave, maestro, sponda di sostegno. Quando il figlio torna a casa dall’Alsazia, ferito in guerra (una pallottola in una gamba, una brutta lesione che lo lascerà zoppo tutta la vita), la convalescenza è “salvata”, illuminata, dalla presenza di Pierre-Auguste, allora già anziano, celebratissimo pittore. La madre, Aline Charigot, è morta da poco; è il padre a intrattenere il figlio costretto all’immobilità, e a farlo con conversazioni che sono lezioni di sguardo, da Jean mai dimenticate. “Quando si guarda per bene, si può vedere la bellezza ovunque”, dice il pittore al futuro regista. Gli insegna a coltivare quella serenità interiore che diviene quiete dello sguardo, e di lì capacità di assorbire, captare, cogliere. Prologo di quell’incanto di cieli e spaccati di natura di Une partie de campagne, film ispirato a Maupassant e che è un’ode ai quadri del vecchio Renoir – varrà a Jean la definizione di “impressionista del cinematografo”.

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Già prima, è Pierre-Auguste Renoir a indicare al figlio in piena crisi creativa la lettura di Zola – ed ecco Nana (1926) non primo film di Jean Renoir, ma il primo con un’estetica assolutamente sua propria. O Le dejeuner sur l’herbe (in analogia alla celeberrima tela impressionista di Manet); là di nuovo, ogni dettaglio del paesaggio si può leggere come traduzione in linguaggio filmico dell’estetica paterna. Lunghi piani sequenza di spighe di grano spettinate dal vento, di alberi, fiori, nuvole. E i colori: quelli che saranno de Il fiume, il film del 1951 con cui Renoir vince il Festival di Venezia (un technicolor assolutamente impressionista quanto a nitore e luminosità delle tonalità). O ancora French can can, con scene di ballo, e arredi, e costumi che evocano quadri. La pittura vive negli occhi del regista, e la sua vita di lavoro è in continuo controcanto a quella del padre.

 

Al di là dell’“impressionismo”, la strada maestra verso una vera emancipazione, verso un affrancamento autentico, per Jean Renoir arriva con il lavoro di montaggio. Lì la sua estetica, la sua liberazione. In una capacità straordinaria di riorganizzare le immagini, di nuovo ispirata alla concretezza del lavoro di impronta paterna. Pierre-Auguste Renoir aveva insistito con i figli ancora adolescenti perché facessero della ceramica, e il catalogo della mostra parigina riporta alcuni vasi realizzati dal Jean più – e meno – giovane. Un’attività parallela di cui il regista racconta tutta la magia – andarsene per campi a cercare l’argilla, mescolarla alla sabbia, poi al tornio scolpire, modellare. Tutto è attinenza alla materia, alla vita, lasciando poi che sia la vita stessa a parlare. Del padre, Jean lodava “l’incessante allegria”. Del suo proprio lavoro, raccontava la pienezza felice. E di questo rapporto edipico anomalo, felicemente risolto, l’esposizione al Musée d’Orsay comunica questo soprattutto: quanto sia in nome di un medesimo grande amore per la vita che padre e figlio si avvicinino (ebbero anche una donna “in comune”, Andrée Heuschling, ultima modella di Pierre-Auguste e prima moglie di Jean). E quanto in nome dello stesso amore invece si diversifichino, ciascuno essendo nel modo più pieno, e autonomo, se stesso. “Ho passato la vita a cercare di determinare l’influenza di mio padre su di me”, confessa Jean Renoir in una delle interviste video. Mentre lo dice ha gli occhi che ridono, lontani da qualsiasi tormento apparente. Lo appassiona capire dove l’arte si nutra di echi, suggestioni. Eppure il problema per lui sembra alle spalle, o addirittura mai posto. “L’incessante allegria” del padre è anche la sua. Quello sguardo che tanto ha assorbito (quadri, libri, film altrui), ora guarda, libero, a oggetti e soggetti scelti con la stessa libertà. E’ se stesso: ed è proprio in quel momento che Jean diventa, lui anche, e per sempre, “Renoir”.

 

L'ultimo libro di Lisa Ginzburg è “Pura invenzione. 12 variazioni su ‘Frankenstein’ di Mary Shelley” (Marsilio)

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