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Fukushima, la regione senza più bambini

Giulia Pompili

Sono scappati, e non vogliono più nascere lì

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Cara Annalena, quattro città della prefettura di Fukushima, in Giappone, sono diventate città senza bambini. A Namie, Tomioka, Iitate e Katsurao (le ultime due sono piccoli villaggi, non certo grandi metropoli), quando riapriranno le scuole, tra un paio di mesi, a frequentarle ci sarà il 4 per cento dei bambini che c’erano prima dell’11 marzo del 2011. E’ una data che spesso dimentichiamo, ma che ha cambiato tutto: non solo per il terremoto e per il maremoto, che ha distrutto e ha spazzato via intere città, ma per quel mostro creato della centrale nucleare, il nemico invisibile delle radiazioni. Scrive il Mainichi che alle scuole di Namie, sette anni fa, erano registrati 1.440 bambini. Sai in quanti hanno fatto richiesta per il prossimo anno scolastico? Dieci. Namie era una città di ventunomila abitanti, quasi tutti pescatori, ma ora che secondo il governo in gran parte della prefettura di Fukushima si può tornare a vivere, nessuno vuole tornare in una città fantasma. In sette anni la vita di una famiglia cambia: quell’11 marzo, quando sono stati costretti a lasciare le loro case, sapevano che non sarebbero tornati presto. E così quasi tutte quelle famiglie si sono stabilite altrove, lontane dal mostro invisibile. I bambini che andavano all’asilo all’epoca del disastro adesso frequentano le scuole medie. Sono stata lì pochi mesi fa, ho incontrato i responsabili del ripopolamento, e mi hanno detto che non c’è soluzione. In una azienda agricola a una ventina di chilometri dalla centrale ho mangiato le mele più buone del mondo – è l’acqua delle montagne, dicono – ma quelle mele lì, anche a distanza di sette anni, non le vuole mangiare nessuno.

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