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GranMilano

Lo stile Disney-pol. corr. di Zero alla Barona non è piaciuto

Cristina Giudici

Per i promotori dello storico centro sociale di Milano la periferia nella fiction ha perso qualche sfumatura, nel bene e nel male. Il taglio fiabesco ha reso le rivendicazioni e i conflitti più digeribili, forse anche più facili da vendere

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Al Barrio’s alla Barona la troupe romana che doveva girare la serie Netflix Zero per parlare alla genZ di periferia, amicizia, amore e riscatto non ha lasciato un gran ricordo. Arrivata nel quartiere con un cast composto da attori non professionisti ed esordienti, in maggioranza afro-italiani (unica vera novità per il pubblico italiano abituato a vedere ragazzi di origini straniere che interpretano sempre solo ragazzi di origine straniera e mai cittadini italiani quali invece sono) hanno ripreso il contesto esterno del famoso centro sociale, finito anche in vari spot pubblicitari. 

 

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Ma poi, anche per via dell’emergenza sanitaria, gli otto episodi sono stati girati altrove. Il Barrio’s che nella serie Netflix diventa il Barrio, metafora della periferia, è una narrazione troppo semplificata, come ci ha detto il responsabile di Barrio’s, l’educatore Mario Lenelli. “La Barona è molto peggio e molto meglio di quanto appare nella serie”. E non tanto per il gergo giovanile usato, i tanti “bro” per dire fratello, la crew per definire il gruppo, entrati nello slang giovanile, ma perché la banda di amici, paladini della giustizia che cercano di difendere la periferia dai palazzinari spregiudicati non rappresenta il melting pot che si trova soprattutto in periferia (ma non solo) nelle seconde generazioni, che hanno molte origini.

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La serie è piaciuta molto ai sostenitori del movimento Black Lives Matter perché hanno visto in Zero il riscatto di tanti afro-italiani, ma al Barrio’s fondato nel 1997 da don Gino Rigoldi si percepisce il fastidio di chi in quel centro di aggregazione ci ha messo l’anima. E non si riconoscono nella narrazione ispirata al romanzo “Non ho mai avuto la mia età” di Antonio Dikele Distefano, nato a Busto Arsizio da genitori angolani, perché non racconta la periferia. Almeno non quella milanese né soprattutto la Barona. E anche se nella serie appare sempre il protagonista Omar che sfreccia come ogni rider davanti al vero Barrio’s con i graffiti e tutto il resto, la realtà stride troppo con questa storia fantasy. Certo, è una fiction. L’attore Giuseppe Dave Seke che viene dal Veneto, in Zero è un rider di origini senegalesi che vive in un appartamento elegante che “magari fosse”, dicono ironici al Barrio’s per far capire che solo in una fiction un rider può vivere in un appartamento che sembra uscito dalla zona 1. Omar è un supereroe e fa della sua invisibilità un superpotere per salvare il Barrio dalla speculazione edilizia. 

 

A chi sta alla Barona sembra lunare la descrizione del luogo desolato che viene devastato per sfrattare gli abitanti. Insomma, Zero a chi conosce la realtà ha fatto un effetto irreale. Anche perché avrebbero voluto un coinvolgimento più attivo e non essere solo la scenografia di una storia aliena, o forse troppo romanizzata dagli autori. Chissà se invece  Zero è davvero piaciuta alla genZ. Sicuramente è piaciuta alle attrici protagoniste della serie, che vengono chiamate soprattutto per interpretare ruoli stereotipati, come ha detto e ribadito Daniela Scattolin, anche lei afro-italiana adottata da una coppia veneta, che ha affermato in varie interviste di essere stata sempre chiamata dalla sua agenzia per interpretare il ruolo di migrante o prostituta, mentre qui è la leader protettiva e saggia della crew che sogna il riscatto attraverso la musica. Insomma alla Barona si sono sentiti traditi dalla semplificazione eccessiva della trama.

 

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Matteo Matteini, intellettuale di seconda generazione, project manager e fondatore di Vitality social, una onlus che incuba alcune start up di cittadini con origini diverse nelle periferie milanesi, si augura che Zero sia un esperimento utile per attori di origini straniere per sentirsi ispirati a recitare, a scrivere sceneggiature e interpretare il cambiamento. Quanto alla serie, osserva con ironia: “La fotografia di Zero smonta e rimonta Milano per renderla più scintillante e fluida. Uno scenario disneyano dove fattorini, criminali, fattucchiere, industriali, disoccupati, privilegiate, usurai e bottegai di tutti colori sembrano capirsi alla perfezione. La città dei miei sogni”. E a noi resta il dilemma insolubile di come faccia il protagonista a raggiungere in così poco tempo la fidanzata radical chic nel suo mega appartamento a Porta Nuova, dalla Barona, che per quanto lavoro sociale sia stato fatto resta sempre nella periferia profonda. Un milanese davvero non lo può capire.
 

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