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Gran Milano

Noi, la Cina, le nostre aziende, la moda, Biden. Parla Mario Boselli

Fabiana Giacomotti

Gli Usa "ripartiranno, sulla spinta del nuova presidenza". Ma tanti settori, a partire dal fashion, devono la propria tenuta soprattutto a Pechino: "Senza i loro acquisti avrebbero chiuso"

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Dal suo ufficio milanese nella celebre Casa di Guglielmo Ulrich con ampia vista sui Giardini pubblici, il presidente della Fondazione Italia-Cina e dell’Istituto italo-cinese Mario Boselli dice che l’Italia ha fatto bene a firmare l’accordo con Beijing nel 2019 “ancorché non se ne sia capita la portata, anche diplomatica: un’alternativa al riparo dell’ombrello americano e della sua ombra ormai quasi centenaria andava trovata”. Aggiunge come “fra le tante proteste e i molti distinguo rivolti al premier Conte e al ministro Luigi Di Maio non si sia tenuto conto che un investimento infrastrutturale nei nostri confini, penso al porto di Trieste e quello di Taranto, con i problemi che ha con l’Ilva, postuli l’accettazione delle nostre leggi sul lavoro. Oltre al fatto che le opere restano. E noi, diciamocelo una volta per tutte, i soldi per queste opere non li abbiamo”. Certo qualcosa di più – aggiungiamo noi – avrebbe dovuto essere fatto anche in termini di verifica e di spiega pubblica sui termini dell’intesa Italia-Cina, e prima che l’Unione europea aprisse a un accordo estensivo sull’auto e sull’energia con il governo di Xi Jinping lo scorso dicembre.

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Dal suo ufficio milanese nella celebre Casa di Guglielmo Ulrich con ampia vista sui Giardini pubblici, il presidente della Fondazione Italia-Cina e dell’Istituto italo-cinese Mario Boselli dice che l’Italia ha fatto bene a firmare l’accordo con Beijing nel 2019 “ancorché non se ne sia capita la portata, anche diplomatica: un’alternativa al riparo dell’ombrello americano e della sua ombra ormai quasi centenaria andava trovata”. Aggiunge come “fra le tante proteste e i molti distinguo rivolti al premier Conte e al ministro Luigi Di Maio non si sia tenuto conto che un investimento infrastrutturale nei nostri confini, penso al porto di Trieste e quello di Taranto, con i problemi che ha con l’Ilva, postuli l’accettazione delle nostre leggi sul lavoro. Oltre al fatto che le opere restano. E noi, diciamocelo una volta per tutte, i soldi per queste opere non li abbiamo”. Certo qualcosa di più – aggiungiamo noi – avrebbe dovuto essere fatto anche in termini di verifica e di spiega pubblica sui termini dell’intesa Italia-Cina, e prima che l’Unione europea aprisse a un accordo estensivo sull’auto e sull’energia con il governo di Xi Jinping lo scorso dicembre.

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Ma la pandemia ha dettato tempi e modi nuovi su ogni settore e sulla stessa esistenza. Ed è attorno alla pandemia che si gioca l’immensa partita fra Beijing e il resto del mondo nei suoi risvolti economici, sociali e psicologici. Una partita dove l’Italia deve giocare un ruolo proattivo. Anche perché non gliene può toccare un altro. L’altro giorno, di fronte ai risultati diffusi dal governo cinese per l’anno appena trascorso, che evidenziano una crescita finale del 2,3 per cento spinta da un poderoso quarto trimestre in aumento del 6,5 per cento, Il Foglio richiamava un tweet di Michael Pettis dell’Università di Pechino sulle necessità di distinguere “fra Pil ed economia” e sulle mosse adottate nei mesi scorsi dal governo centrale a favore dei moltiplicatori veloci, come investimenti infrastrutturali e immobiliari, “per fini politici interni”. Aggiungeva un dato significativo, e cioè che i consumi sono scesi del 3,9 per cento nel 2020, e che il debito continua a peggiorare, addirittura di più venticinque punti, mentre il Covid non sembra affatto debellato e che anzi, in undici aree di tre province è stato di nuovo imposto il lockdown. Dunque? Con tutti i sentimenti contrastanti che, da mesi, ci accompagnano alla semplice evocazione dell’insieme semiotico “Cina”, con tutti i vari “leaks” pandemici non sempre verificabili, i dibattiti etici aperti da medici cinesi più o meno anonimi sui tempi e i modi della comunicazione della malattia dal governo centrale cinese al resto del mondo, con i fatti da commisurare alla propaganda, nel rapporto con la Cina non potremo che farci andar bene, adattarci, farci anche noi concavi e convessi, come diceva qualcuno nelle ultime settimane del premierato Conte.

 

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Qualche settimana fa Boselli ha aggiunto alle sue molte cariche, che comprendono la presidenza onoraria della Camera della Moda e di Banca 5, anche la presidenza di Prestitalia, società finanziaria del gruppo Intesa Sanpaolo. Si trova, insomma, al centro di una rete di relazioni diplomatiche e commerciali rilevanti fra i due paesi (nelle ultime settimane la Fondazione ha favorito, attraverso la direzione generale Europa del colosso Fosun, la vaccinazione per i dipendenti italiani di imprese in Cina), e si dice convinto che debbano solo migliorare e rafforzarsi. Anche per le debolezze di un numero significativo di destinazioni per il nostro export nei prossimi anni. Dalla presidenza Usa di Joe Biden, Boselli non si attende più certamente la stretta daziaria usata da Donald Trump come grimaldello e leva contro il resto del mondo ed è certo che la fine della pandemia – “da molti segnali e sempre che il piano vaccinale prosegua” se la immagina per la seconda metà dell’anno – produrrà un rimbalzo straordinario e generalizzato nei consumi, sull’onda dell’entusiasmo e del rafforzamento psicologico generale. “Sono certo che, una volta messo sotto controllo il Covid, gli Usa ripartiranno, anche sulla spinta della nuova presidenza”. Ma al momento molti settori, a partire dal tessile e moda, devono la propria tenuta al nord Europa e soprattutto alla Cina: “Senza gli acquisti cinesi, molte aziende di piccole o medie dimensioni della subfornitura avrebbero chiuso”. Ma è anche vero che, sugli investimenti esteri, il governo di Jinping sembra intenzionato a una stretta, come sembra evidente anche nella partita della cessione dell’Inter (al momento pare che il colosso dell’elettrodomestica cinese Suning riacquisterà in tempi brevi il 31,05 per cento delle quote in mano a LionRock, in previsione di una nuova vendita). Pare che Suning non voglia disimpegnarsi, ma che la stretta di Beijing stia obbligando a un cambio di rotta. “Da tifoso, e da italiano”, dice Boselli, “non investirei nell’Inter se non da azionista di maggioranza”. Anche la concavità ha dei limiti di accoglienza.

 

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