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Rider durante il Covid

Michel Martone

Hanno garantito continuità produttiva e alimentare. Così la parte più debole ha portato il peso delle necessità

Anche guardando al settore del delivery, con la pandemia tutti i nodi sono venuti al pettine. Nel corso della prima come della seconda ondata, i lavoratori che facevano le consegne hanno assicurato con la continuità produttiva e anche quella alimentare: dai commessi dei supermercati che portavano la spesa nelle case, ai giovani assunti per portare i medicinali a chi era in quarantena, fino ai rider che portandoci i pasti con le loro biciclette hanno consentito, quantomeno alle cucine dei ristoranti, di proseguire l’attività nonostante le restrizioni imposte dall’emergenza. Così, giorno dopo giorno, ci siamo resi conto che questi compiti così importanti per tutti noi venivano svolti da lavoratori talmente deboli da accettare, per soli 3,50 euro a consegna, di prendere la bicicletta, anche di sera e nelle condizioni climatiche e sanitarie più avverse, per fare il loro lavoro senza poter contare su alcuna tutela né legale né sindacale: né una retribuzione proporzionata e sufficiente, né un orario predeterminato, nessuna garanzia in caso di malattia o infortunio, nessuna tutela contro il licenziamento, neanche il preavviso, figurarsi la pensione. Un’ingiusta ed evidente disparità di trattamento rispetto a molte altre categorie di lavoratori alla quale, in mancanza di soluzioni legislative o sindacali, hanno cercato in un primo momento di porre freno i giudici che, a partire dalla oramai nota sentenza della Cassazione n. 1663/2020, hanno tentato, nelle forme più variegate, di estendere diritti e protezioni tradizionali a queste “nuove” forme di lavoro.

 

Come infine ha fatto il tribunale di Palermo con la recentissima sentenza con la quale ha riconosciuto a un rider tutte le tutele del lavoro subordinato sulla base della considerazione che quel lavoratore in definitiva dipendeva dalla piattaforma perché di fatto non era libero di scegliere se e quando lavorare. Con ritardo si sono mossi i sindacati che ben presto si sono divisi arrivando a sottoscrivere due contratti collettivi concorrenti, non solo sotto il profilo delle tutele ma anche sotto quello delle filosofie.

 

Il primo, contestatissimo perché francamente al ribasso, sottoscritto lo scorso 15 settembre dall’Ugl e Assodelivery che li continua a considerare lavoratori autonomi riconoscendo loro solo alcuni diritti minimali come un compenso orario base, alcune maggiorazioni per il lavoro notturno e il maltempo e l’assicurazione antinfortunistica.

 

Il secondo, che in realtà fa parte del rinnovo del contratto della logistica, che giustamente ha riscosso maggiore consenso, non solo perché sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil con le altre associazioni datoriali del settore e in qualche modo patrocinato dallo stesso ministero del Lavoro, ma soprattutto perché infine li qualifica come lavoratori subordinati con il placet della maggioranza delle imprese. Un’assunzione di responsabilità, forse tardiva ma importante soprattutto in questo particolare momento storico, da parte di un settore che non ha subìto danni a causa della pandemia e che ora comincia a rendersi conto che è necessario prendersi cura di chi è stato maggiormente penalizzato. Come sotto altro profilo dimostra l’annuncio, altrettanto importante, di un’altra società del delivery di voler sostenere nei prossimi due mesi i ristoranti in crisi azzerando le commissioni sulle consegne.

 

Speriamo che alla fine il costo di questa iniziativa non venga scaricato ancora una volta sulle spalle, anzi sulle gambe, dei rider che faranno quelle consegne perché la pandemia dovrebbe ormai averci insegnato che è sbagliato e controproducente e ingiusto richiedere ai più deboli e meno garantiti di portare il peso delle necessità, e dei bisogni, anche primari, di tutti gli altri. Un insegnamento di cui speriamo faccia tesoro anche la politica quando, superata l’emergenza e finito il sostegno finanziario europeo, per riparare ai guasti della pandemia sarà necessario riformare un sistema di welfare in cui i contributi dei lavoratori più giovani e precari, gli outsider, sono utilizzati per finanziare le pensioni degli insider.

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